Gabanelli: "Noi, che pestiamo i piedi al potere"

La conduttrice di "Report", programma d'inchiesta di Raitre, ospite del Festival dell'Economia: "Il giornalista può ancora essere cane da guardia del potere, ma «se cambierà la legge la buona volontà non basterà più"


Luca Marognoli


TRENTO. Il giornalista può ancora essere cane da guardia del potere, ma «se cambierà la legge la buona volontà non basterà più». Parola di Milena Gabanelli, autrice e conduttrice di “Report”, pluripremiata trasmissione di Rai3. Stile asciutto e diretto, Gabanelli ha cambiato il concetto di giornalismo televisivo, puntando tutto sull’inchiesta, genere misconosciuto in Italia, e creando un team di freelance («io non lo sono per scelta, ma perché nessuno mi ha assunto», dice) che girano telecamera in spalla. E’ il videogiornalismo, modo di lavorare “easy” perché costa poco, ma anche “hard” perché comporta fatica e richiede grande rigore. «In Italia si fanno cause pretestuose milionarie, impunemente», spiega. «Ne ho un certo numero aperte, ma aspiro a non perderle». Ricette non ne ha, solo un consiglio: rispettare la deontologia. E «guardare dove gli altri non guardano».
Lei viene a Trento a parlare di informazione e potere. Oggi esiste ancora il giornalista cane da guardia del potere?
Dipende dal giornalista e dall’editore. Se cambierà la legge la buona volontà non servirà più.
Il discorso si può ribaltare. Il giornalista è indubbiamente esso stesso un “detentore” di potere. Come va esercitato?
Il potere, come la professione, va gestito deontologicamente, rispettandone tutti i criteri. Diversamente viene meno la ragione di questa professione e la credibilità.
Il giornalista deve rispondere anche a un editore che è a sua volta un “centro di potere” o di interessi. E’ per essere libera da influenze che ha scelto la carriera del freelance?
No, non sono freelance per scelta, ma perché nessuno mi ha mai proposto un’assunzione, da nessuna parte. Comunque conosco diversi giornalisti dipendenti di testata che non sono influenzabili dall’editore... eventualmente “solo” censurati.
Giornalisti con in mano la telecamera portatile. Una formula, quella del videogiornalismo, che è il suo marchio di fabbrica. Quali sono i pro e i contro di questo approccio?
E’ un metodo rapido e molto economico. Il resto sono svantaggi... perché è più faticoso fare tutto da soli.
L’inchiesta, in Italia, è un genere giornalistico meno praticato che altrove, soprattutto in America, dove si investe tempo e denaro per realizzarne. La sensazione è che da noi sia tutto più schiacciato sulla cronaca “immediata” e non ci siano le risorse o la volontà di investire in questo settore. Perché?
Le ragioni sono le più diverse: è faticoso, devi rinunciare alle frequentazioni che contano, è estremamente costoso. Comunque la ragione che più di tutte contribuisce ad indebolire questo genere sono di tipo giudiziario. In Italia si possono fare cause civili pretestuose milionarie, impunemente.
Lei è stata inviata di guerra in diverse parti del mondo, dall’ex Jugoslavia alla Somalia. Cosa ha imparato facendo questo lavoro?
E’ il mestiere più bello del mondo perché allarga gli orizzonti.
Anche in guerra si può lavorare in modi diversi. Ci sono i giornalisti “embedded”, al seguito degli eserciti, quelli che fanno la cronaca nella stanza d’albergo con le notizie di agenzia e quelli che si muovono in autonomia...
Il fronte di guerra non è diverso da una qualunque altra frontiera, la differenza la fa la qualità e il carattere del singolo.
La concorrenza. C’è chi per strappare di bocca all’altro una notizia è disponibile a colpi bassi. Quale dovrebbe essere il codice di comportamento fra colleghi?
Quello di scambiarsi notizie e contatti... visto che dovremmo avere tutti lo stesso obiettivo, quello di far circolare le informazioni.
La verifica di una notizia e della veridicità di una fonte è una cosa spesso complessa. Le è mai capitato di sbagliarsi e come si comporta per evitare passi falsi?
La “fonte” ha delle caratteristiche precise, diverse dal pettegolezzo o dal sentito dire. E’ un testimone, o una persona autorevole per la carica che ricopre, e comunque occorre sempre cercare riscontri documentali o da altre fonti. Dipende da cosa c’è in ballo... occorre valutare caso per caso.
L’errore è sempre possibile, ma bisogna essere in buona fede e fare tutto quello che si può per evitarlo. Ho un certo numero di cause aperte, quando saranno chiuse potrò dire se ho sbagliato oppure no.
Se dovesse dare a un ragazzo che vuole fare il giornalista qualche consiglio di base cosa gli direbbe?
Di capire se è realmente il mestiere che vuole fare... e quindi non demordere, senza fretta, e guardare dove gli altri non guardano.
Lei ha lavorato con Minoli. Quanto ha influito questa esperienza nel suo modo di fare giornalismo?
Ho infinita riconoscenza per Minoli perché mi ha dato la possibilità di mettermi alla prova. E’ un mestiere che ho imparato poco per volta, ma sopratutto insieme alla squadra di Report, nata nel ’97.
Perché ha deciso di fare la giornalista e che differenze ha riscontrato fra la visione “romantica” di chi vuole intraprendere questa professione e la realtà del lavoro sul campo?
Ho cominciato per caso, e non ho mai avuto visioni romantiche del lavoro...
“Riportare” quello a cui si assiste in maniera più fedele possibile. Come raggiungere questo obiettivo senza farsi travolgere dall’emozione o dalla partecipazione agli eventi?
Non ho ricette... si impara con l’esperienza. Se potessi brucerei tutti i miei primi lavori.
E’ vero che un bravo giornalista deve avere anche il “pelo sullo stomaco”? Serve del cinismo per essere bravi reporter?
Almeno un po’ (di cinismo), ma direi che per farlo bene non serve il pelo sullo stomaco e nemmeno sulla lingua.
Quali sono, se ce ne sono, i giornalisti che stima di più?
Sono tanti, fra i colleghi italiani Ettore Mo, Stella, Rizzo, Claudio Gatti, Sarzanini, Malagutti, e tutti quelli che lavorano con me.
La legge sulle intercettazioni. Dov’è, a suo avviso, il punto di bilanciamento fra tutela del diritto di cronaca e della privacy?
Quando parliamo di affari privati, così privati che non hanno nessuna rilevanza pubblica, nemmeno se si tratta del presidente della Repubblica.
I servizi di Report pestano spesso i piedi al potente di turno. Le querele e le richieste di risarcimenti danni la spaventano? Teme di doverne rispondere direttamente e quali accorgimenti usa per “proteggersi”?
Cerchiamo di avere le prove di quel che si dice e di usare un linguaggio “continente”, anche se diretto. Le querele non le temo, però aspiro a non perderle, questo significa un’attenzione sempre molto alta.

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