«Donne e gay nuovi capri espiatori»

Giornata anti omofobia, la filosofa ospite a Trento: «Dietro la violenza problemi di identità»


di Paolo Morando


di Paolo Morando

Il settimanale francese Le Nouvel Observateur l’ha classificata tra i cinquanta intellettuali più influenti al mondo. Filosofa morale ma volto ormai noto anche al pubblico televisivo, grazie alle frequenti apparizioni su La7 ospite di Gad Lerner a “L’infedele”, Michela Marzano dirige il Dipartimento di scienze umane alla Sorbona di Parigi. E i suoi numerosi libri, da “Estensione del dominio della manipolazione” a “Sii bella e stai zitta. Perché l’Italia di oggi offende le donne”, hanno spesso guidato il dibattito pubblico: sulla strisciante ideologia manageriale, che permea di sé ogni aspetto della vita sociale, e naturalmente sull’Italia del berlusconismo. Oggi e domani sarà a Trento, per due incontri pubblici (vedi in basso). Ma Michela Marzano dallo scorso febbraio è anche deputato della Repubblica, eletta per il Pd in Lombardia. Alla Camera fa parte della Commissione giustizia. E proprio dalla sua nuova esperienza politica parte questa intervista.

Onorevole oppure professoressa?

Facciamo professoressa.

Fatica ad abituarsi al gergo e ai meccanismi della politica italiana? Si capiva già dalle brevi note-diario che scriveva su Repubblica, nei primi giorni della legislatura.

Sì, fatico un po’. Continuo a sentirmi un’osservatrice esterna. È un mondo molto diverso da quello in cui ho vissuto finora. In più questa è una legislatura particolarmente complessa. E la sensazione che vivo è l’assoluta impotenza. Tra neoparlamentari ci si incontra nelle commissioni e in aula, ma la nostra possibilità di contribuire a cambiare le cose mi sembra davvero scarsa. Speriamo che le cose cambino.

Colpa solo del risultato elettorale?

Gran parte dello sconforto dipende da quello. Quando Bersani mi propose di candidarmi, le prospettive sembravano ben altre: lo scenario era quello di un governo di forte cambiamento, con importanti riforme sulle libertà individuali, sulle quali mi era stato chiesto di dare un contributo. Ora si è bloccato tutto: di governo di cambiamento non si può parlare. In più la congiuntura economica è quella che è.

Come spiega ai suoi colleghi francesi l’attuale situazione italiana?

Non è facile, benché a Parigi si guardi a quanto accade a Roma con interesse. Anche in Francia la situazione è delicata. La maggioranza socialista è solida, ma c’è un grande malcontento popolare.

Però è stato appena introdotto il matrimonio civile per le coppie gay.

Certo, e si tratta di un grande cambiamento. Ma le critiche a Hollande restano: troppe riforme solo annunciate, insufficiente presa di distanza dalle posizioni della Merkel. Ora in Francia c’è chi teme un “effetto Italia”, cioè un Parlamento ingovernabile.

Con il sempresidenzialismo e una sola Camera, il sistema politico della Quinta repubblica sembra però a prova di bomba.

In effetti è così. Nonostante l’attuale confusione ideologica, la chiarezza istituzionale francese è un ottimo antidoto. Lo dimostra proprio l’approvazione della legge sui matrimoni gay, nonostante le aspre manifestazioni contrarie.

Per chiudere con le questioni romane: come le sembrano i colleghi del Movimento 5 Stelle?

Spero sempre che prima o poi si rendano conto che per cambiare il Paese serve collaborazione. Mentre invece il loro atteggiamento è di opposizione distruttiva. In aula parlano e parlano, spesso intralciando i lavori. Non hanno la minima idea come debba svolgersi il lavoro parlamentare.

Diritti civili: quanto è indietro l’Italia?

Siamo indietro prima di tutto a livello culturale, me ne accorgo proprio qui in Parlamento, dove non vedo la capacità di affrontare i problemi per quello che sono, confrontandosi con le associazioni che se ne occupano. È una questione anche di vocabolario, mi sforzo sempre di spiegarlo: dietro alle violenze relazionali c’è un problema di grammatica, che va cambiata. Oggi siamo di fronte a una crisi identitaria degli uomini e delle donne, che va affrontata decostruendo gli stereotipi e fornendo un nuovo alfabeto delle relazioni. Altrimenti non andremo da nessuna parte. La violenza, verbale prima ancora che fisica, va prevenuta.

Non è che i politici, con le parole, ci vadano proprio con i piedi di piombo.

Il che dimostra quanto il problema sia culturale. Se i primi a usare un linguaggio violento sono proprio coloro che dovrebbero legiferare...

E sul fronte della repressione? I femminicidi ormai non si contano più. Tra l’altro, a questo proposito: è la violenza ad aumentare o piuttosto l’attenzione dei media?

Entrambe le cose. Certo se ne parla di più, ma è comunque un fenomeno che si sta aggravando, perché le crisi economiche hanno sempre un forte impatto sociale. E chi ne paga le spese sono sempre i soggetti più deboli. La storia insegna che nei momenti critici aumenta la diffidenza verso chi è diverso da sé. Contro cui ci si difende opponendosi con violenza.

Il capro espiatorio di cui scriveva René Girard.

Esattamente. Qualcosa va comunque fatto subito: ad esempio finanziando i Centri antiviolenza. E poi ratificando la Convenzione di Istanbul.

Di che cosa si tratta?

È un documento del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. La firmò il ministro Fornero nel settembre 2011. Ma l’Italia è tra i pochi Paesi che ancora non l’hanno ratificata. Dovrebbe essere uno dei primi impegni del nuovo Parlamento. E ancora, riorganizzare a livello territoriale l’azione di polizia e magistratura. Perché uno dei problemi è costituito da atti di violenza perpetrati da persone già segnalate per stalking e mai perseguite fino in fondo. Per controllarle si parla ad esempio di braccialetti elettronici. Ma ripeto: la questione va affrontata a livello culturale.

Tempi lunghi: è un lavoro che durerà più generazioni. Da dove iniziare?

Ad esempio, ed è un’altra misura da introdurre subito,prevedendo elementi di genere nei manuali scolastici, dove temi come l’omosessualità sono completamente occultati. La tolleranza va costruita iniziando a insegnarla a scuola.

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