«Così gli agenti mi hanno picchiato»

Il drammatico racconto di Deborah Angrisani, 22 anni, la ragazza trentina calpestata nella capitale: sentivo piovere botte


di Ilaria Bonuccelli


TRENTO. La protagonista, suo malgrado, degli scontri al corteo di Roma è una ragazza trentina, Deborah Angrisani. È lei, infatti, la ragazza calpestata dall’agente che tanto ha impressionato non solo l’opinione pubblica, ma anche il capo della polizia che aveva sentenziato: «È un cretino».

Deborah racconta la sua disavventura da Pisa, dove sta studiando Scienze per la pace all’università. «Ho preso in mano la verdura, ma poi l’ho buttata a terra. Non me la sono sentita di lanciarla». Deborah, la «bastarda», che si infila nei cortei di «gente di m...», non scaglia nulla al corteo per il diritto alla casa. Né contro il ministero del Lavoro né contro le forze di polizia. Niente pietre, niente molotov. Uno zaino pieno di panini e muffin preparato prima di salire sul pullman a Viareggio. Per questo si chiede come sia finita per terra, in piazza Barberini, con un agente in borghese che le cammina sulla pancia.

Quando si rialza, Deborah Angrisani grida ai poliziotti: «Voi siete pazzi». Poi, però, decide di non denunciarli. Non si fa neppure refertare. «Tanto non serve a niente». Poi ci ripensa. A qualcosa, invece, serve quello che è successo a 22 anni. A convincerla a partecipare alle prossime manifestazioni sullo stato sociale, insieme agli amici di Viareggio, gli stessi della trasferta di Roma. Quelli della “Brigata anti-sfratto” . Glieli ha fatti conoscere Andrea Coltelli, l’ex compagno di studi universitari che a Roma le ha fatto da scudo col suo corpo.

Lo hanno visto tutti. Una foto lo immortala mentre la protegge dai colpi di manganello. Deborah tenta di tamponargli il sangue avvolgendogli la sciarpa attorno alla testa. Ma non è così che si immagina la sua prima grande manifestazione a Roma. Le manganellate sul braccio, ancora gonfio, a distanza di tre giorni; una sulla schiena: «Forse è per quella che sono caduta». Ancora Deborah non si capacita. Il viaggio era partito tranquillo. I controlli alle porte della capitale vengono superati: sul pullman non vengono trovati caschi, spranghe, mazze. «Io sono stata testimone di queste ricerche: quando gli agenti aprivano le borse, dicevano che se avessero trovato qualche cosa ci avrebbero portato tutti dentro».

Alle 14,30 sono tutti a Porta Pia. Da lì verso via Veneto, direzione piazza Barberini. Ci sono musica e sbandieratori. Aria di festa, concorda Andrea. Di lì a poco, gli sarebbero arrivate le prime botte. «Non so perché - dice - le forze dell’ordine ci hanno attaccato in via Veneto. Io stavo indietreggiando. Non avevo nulla. Nessuna spranga: le mie mani erano abbassate. Mi hanno picchiato, mi hanno messo a sedere e continuato a picchiare». Qualcuno ha visto Andrea in mezzo ai facinorosi, ma lui scuote la testa e liquida: «Menzogne». L’unico motivo per cui si è ritrovato con la felpa avvolta attorno alla faccia - si difende - è per resistere al fumo dei lacrimogeni. Non certo per nascondersi. «Nelle foto mi si vede sempre a viso scoperto con gli occhiali». Anche quando in piazza Barberini - il luogo della «tonnara», lo definiscono - avviene il nuovo scontro. «Quando abbiamo lasciato via Veneto e siamo riusciti ad arrivare in piazza - riprende Deborah, abbiamo incontrato la gente che urlava “Scappate, scappate”. Ma noi siamo stati gli ultimi ad entrare e siamo rimasti bloccati. Io mi sono presa le manganellate sul braccio e sulla schiena, poi sono caduta a terra. A un certo punto ho sentito il dolore fortissimo sulla pancia: è quando l’agente mi è montato addosso. Ma lì per lì non mi rendevo conto di niente. Sentivo solo i poliziotti che ci insultavano - “fate schifo”, “gente di merda” - e che picchiavano. Anche con il manico del manganello». Fino a quando - sostiene Andrea - non sono arrivati i giornalisti: allora i colpi sono cessati. «Io sentivo piovere botte. Quando sono finiti mi sono trovato circondato dalle macchine fotografiche. E ho capito».

Allora è rimasto solo il sangue. E la fuga. Verso un pronto soccorso (all’Umberto I), per una medicazione, i punti in testa. Ma nessun referto da corteo. Una telefonata precauzionale a un avvocato, nel caso ci fosse stato bisogno. E poi la ricerca del pullman. Anche per Andrea la scelta di non sporgere denuncia: «Tanto a che serve? Per far avere un mese di sospensione a qualche agente? Preferisco continuare il mio impegno sociale per la mia strada».

Ora Deborah pensa solo agli studi e al suo impegno per il sociale, in attesa di laurearsi e diventare una mediatrice di conflitti internazionali. Come promesso alla famiglia, al padre impiegato statale, alla mamma infermiera. E al fratellino, di 12 anni. Che quando l’ha vista sul web sotto i piedi dell’agente l’ha chiamata da Trento: «Mi hai fatto tanto spaventare». Deborah, però, l’ha voluto rassicurare: «Sto bene». E per lui si concede un sorriso.













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