Checco Moser, il «mito» diventa un documentario

Lo girerà la Film Work di Trento affidando la regia al napoletano Nello Correale Prime riprese ad aprile. Tv canadesi e nord americane già interessate


di Paolo Piffer


TRENTO. Basta farci caso e la scena si ripete, ad ogni Giro d’Italia. Nel momento in cui Francesco Moser è chiamato a commentare la tappa, salendo sul palco dei giornalisti Rai che hanno appena finito di scandire l’ordine d’arrivo. Una volta sceso dalla macchina il Checco è accolto da un boato, di folla, ci si trovi a Molfetta come a Torino. E sono trent’anni che ha smesso di correre. C’è da chiedersi il perché. Il perché di tanta riconoscenza, immedesimazione, riconoscimento. Ad altri campioni del pedale non accade, almeno in maniera così eclatante.

E la risposta, o perlomeno una, non può che essere che il contadino partito da Palù di Giovo per conquistare il mondo è entrato nell’immaginario popolare e collettivo, quella sottile patina che unisce un po’ tutti, un sentire comune che va quasi oltre le vittorie, le braccia alzate al cielo e un pur legittimo orgoglio nazionale. E’ probabilmente questo che il documentario in cantiere alla Film Work di Trento, la casa di produzione video guidata da Luca e Carlo Dal Bosco, intende trasmettere in “Moser, la mia vita” (titolo provvisorio), affidato al regista napoletano Nello Correale, che nasce sceneggiatore per poi passare dietro alla “macchina da presa” e che per la società di galleria Tirrenia ha già lavorato ad un doc su Fortunato Depero.

Di filmati su Moser ce ne sono a iosa, chilometri e chilometri di girato televisivo. Quello che si vuole raccontare adesso, secondo quanto sottolineano sia il regista che Dal Bosco, è altro, che mancava. Volendo sintetizzare, è “la storia di un ciclista attraverso il volto di un uomo” ma non avulso dalla società, dal mondo che ruotava attorno. Perché, in qualche modo, la carriera del Checco, lungo più di un ventennio, dalla fine degli anni Sessanta al ritiro dopo la metà degli Ottanta, “è la storia di un Paese, l’Italia, che si sentiva in ritardo, che aveva fame di tante cose, e si è messo a correre, un po’ come il Trentino, anche buttandosi giù dalle discese a rotta di collo”, dal boom economico agli anni bui fino al riflusso e alla green economy.

Le riprese inizieranno ad aprile e nel giro di 6 mesi dovrebbero terminare, tra Italia, Francia e Paesi Bassi. Dalla tradizione all’innovazione, riflettono Correale e Dal Bosco, “perché Moser, partito da Giovo, carico della storia della sua terra è arrivato alle ruote lenticolari, al casco aerodinamico provato nella galleria del vento, alle scarpette ipertecnologiche del record dell’ora a Città del Messico per poi ritornare in valle, a coltivar vigneti e a curare i suoi interessi”. E ancora adesso, a cavalcioni di una bici, percorre 6000 chilometri l’anno e dovunque vada è un trionfo, quasi non fosse mai sceso di sella e non solo per le sue 273 vittorie (terzo dopo De Vlaeminck e Van Looy), comprese il mondiale, il Giro d’Italia e le Parigi-Roubaix, tanto da aver inanellato, con i secondi e i terzi posti, un anno filato di podi. C’è quel qualcosa di impalpabile che a molti ha fatto commentare che se avesse accettato qualche compromesso in più avrebbe vinto altro ancora. C’è quel qualcosa in più per cui l’interesse di tv canadesi e nord americane pare alle porte. Perché, in fondo, a un ciclista che, pur capitano, Merckx lo andava “a prendere” lui e non ci mandava i gregari, si perdonano anche ruvidezza e asprezza di carattere. La stessa con le quali ha accolto regista e produttore nella sua casa di Giovo. Ascoltava. Poi, ha tirato fuori il rosso delle sue vigne. Acutezza e saggezza contadine che lo hanno portato in vetta, iniziando a guardare lo sbarco dell’uomo sulla Luna dopo aver vinto la prima gara, da dilettante. La prima, di tante, ai quattro angoli del mondo.

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