il caso

Carcere di Trento, tre morti in pochi mesi

Lamentele per la struttura che sarebbe spersonalizzante e per la severità nella concessione di misure alternative


di Ubaldo Cordellini


TRENTO. Tre morti in dieci mesi in un carcere che avrebbe dovuto essere un modello. Troppi, decisamente troppi. Soprattutto considerando che la struttura di Spini di Gardolo veniva definita come un vero e proprio gioiello. Un gioiello che, però, secondo molti dei suoi ospiti è eccessivamente freddo e spersonalizzante. Già nel primo anno di attività del carcere, c’erano state segnalazioni di disagio che erano giunte anche all’Ordine degli avvocati, come spiega la presidente Patrizia Corona nel pezzo qui a fianco. Le segnalazioni sono cessate, ma negli ultimi mesi si sono registrati episodi ben più allarmanti e preoccupanti.

Prima la morte di un giovane di 28 anni che stava scontando una pena di 4 mesi, nel novembre dell’anno scorso. Poi, nell’ultimo mese, ci sono stati ben due suicidi, il primo ad agosto è stato un trentino di 31 anni che si è impiccato alla doccia della sua cella lasciando decine di lettere che spiegavano il suo gesto, il secondo è stato, lunedì scorso, un altro trentino di 38 anni che sarebbe dovuto uscire di prigione a gennaio. Tre episodi che potrebbero anche essere espressione di un disagio personale, ma il loro numero e il fatto che siano così ravvicinati può far pensare anche a qualche problema strutturale.

Parlando con gli avvocati che il carcere lo frequentano spesso e con alcuni operatori, si sente che non tutto è bello e perfetto come la struttura nuova potrebbe far immaginare. Da qualche mese le porte delle celle sono state aperte e questo ha ovviato alla mancanza di spazi e di momenti di socializzazione, ma evidentemente non ha colmato gli abissi di solitudine che albergavano in alcuni detenuti. Secondo l’articolo 27 della Costituzione italiana «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». In altre parole, devono tendere a reinserire nella società chi ha sbagliato. Certo, il carcere non deve essere un hotel, ma deve anche rispettare la dignità di chi ci vive.

Il giovane di 28 anni che morì a Spini nel novembre dell’anno scorso venne ucciso da un mix letale di farmaci e gas. Lo ha stabilito l’autopsia i cui risultati sono arrivati nei giorni scorsi. Il giovane aveva assunto medicinali e poi aveva anche sniffato il gas del fornello della sua cella. La madre del ragazzo chiese subito chiarezza. L’autopsia l’ha fatta. Non ci sono responsabilità dirette di altre persone nella morte di quel ragazzo che cercava di evadere facendo ricorso a paradisi chimici. Così come non ci sono responsabilità nei suicidi dei due trentini che si sono tolti la vita impiccandosi nelle loro celle. Il primo, lo dimostrano i filmati, ha fatto di tutto per non essere scoperto. Ha anche lasciato scorrere l’acqua della doccia per far pensare che si stesse lavando.

Sotto il materasso, però, ha lasciato decine di lettere per spiegare il suo gesto. In nessuna ha dato responsabilità al carcere. Nel periodo precedente era stato anche seguito da psicologi ed educatori, ma la sua morte non è stata evitata. Il secondo suicidio, invece, è stato improvviso. Non ci sono lettere a spiegare il gesto. Non ci sono stati segnali di disagio particolare in precedenza. Resta quel gesto apparentemente inspiegabile a pochi mesi dal fine pena. Un dettaglio, questo, che ha sollevato qualche polemica. Infatti, il trentino che si è tolto la vita lunedì non beneficiava di misure alternative al carcere. Aveva molti precedenti e forse per questo era ancora detenuto, ma ora si è portato la sua sofferenza con sé. Resta da pensare se un sistema in cui ci sono così tante morti riesca a portare a termine il compito che gli viene affidato dalla Costituzione.













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