La storia

Piero, staffetta partigiana. Compie 90 anni e ogni giorno va ancora al lavoro

Dal 1957 dietro il bancone della “Tintoria Vienna” di Bolzano. "Ho iniziato a lavorare a 10 anni e non ho mai smesso"


Luca Fregona


BOLZANO. Piero Pilotto ha la schiena spezzata. Cammina piegato, deve appoggiarsi a un bastone (“la mia terza gamba”), e al braccio di Marina Morandi, la ragazza che assunse sedicenne nel 1973 come apprendista, e che è ancora qui nella “Tintoria Vienna” di via Vintler. 

Una bottega piccola. Le lavatrici mulinano a ritmo continuo, i ferri da stiro sbuffano, i capi puliti nel cellophane dondolano appesi al nastro che gira intorno alla stanza. Fumi di vapore. L’odore di bucato e umido tipico delle lavanderie. È un omone Pilotto, i baffi di altri tempi, l’elegante polo azzurra sui pantaloni grigi di buon taglio: 90 anni compiuti lo scorso 27 aprile (“Non ho festeggiato: mi sono beccato il covid, quello leggero però, sono vaccinato quattro volte»). Ogni giorno è al lavoro nel suo negozio. Nonostante la dannata schiena. «È messa male da molto tempo», dice appoggiandosi di spalle agli scaffali per restare comunque dritto e vedere negli occhi chi ha davanti. È così, la schiena, per le ore e ore passate curvo a stirare, cucire, piegare, asciugare, imballare, pulire macchie che nemmeno domineddio sapeva come togliere, ma lui sì.  Con quel rispetto per i tessuti, il cliente, con l’orgoglio di un lavoro fatto a regola d’arte dei commercianti vecchio stampo. Prima delle lavanderie a gettoni, dei jeans e del poliestere. Piero li detesta, i sintetici. «Fatti con chissà cosa, difficili da trattare, ci vuole molta esperienza per non combinare guai. Con lana, lino e cotone era tutto più semplice, e anche più onesto». 

Da un paio d’anni, non stira più. L’età si fa sentire. «Vengo solo al pomeriggio. Faccio compagnia a Marina, le do un consiglio se ha un dubbio, tratto con i clienti».

Specialmente con quelli difficili. «Ti portano un capo vecchio, sfibrato, mangiato dalle tarme, e poi protestano perché lo pretendono come nuovo. Allora io dico: cara signora (o signore), faccio questo lavoro da 70 anni, ma per i miracoli si rivolga pure all’Altissimo». Tanto per capirci: la quota 100 dell’Inps per lui è arrivata ormai a 151.«Da che mi ricordo, nella mia vita ho solo e sempre lavorato. Non ho un ricordo che sia uno legato all’infanzia».

 

Staffetta partigiana

Pilotto è cresciuto a Piazzola sul Brenta, provincia di Padova. «Sono nato il 17 aprile del 1932. Mio padre era muratore, mia madre lavorava nella fabbrica di sacchi di iuta del paese». Famiglia orgogliosamente antifascista. Dopo l’8 settembre, Piero, che ha solo 11 anni, diventa staffetta partigiana.

«Portavo i messaggi da un posto all’altro. I ragazzi più vecchi erano tutti alla macchia, combattevano i nazifascisti. Un gruppo si era fatto il rifugio sotto terra nel nostro cortile. Noi tosi li aiutavamo a tenere i collegamenti. Di giorno, i tedeschi ci obbligavano a lavorare per loro, a ricostruire ponti e binari sulla Treviso-Ostiglia. Un obiettivo strategico. Di notte, portavamo le informazioni ai partigiani: “Abbiamo lavorato lì e lì”. Loro le giravano agli alleati, che così bombardavano quello che era stato fatto il giorno prima. Se non potevano farlo gli aerei, ci pensavano i partigiani. Paura? No, mai. Non mi hanno mai preso. Conoscevo cascine, canali e campagne come le mie tasche. Portavo poco o niente di scritto». Punta l’indice destro alla fronte. «Era tutto qua dentro, nella mia testa». Anni durissimi. «Mio padre gli ultimi mesi di guerra è stato catturato: una retata dopo una sparatoria tra partigiani e tedeschi a Padova. Sono venuti a casa a prenderlo. Sapevano che era antifascista. Non ti dico, mia nonna quante ne ha dette al federale del paese. Lo hanno tenuto in carcere fino alla fine. Nella mia famiglia non era ammesso tirarsi indietro». Non c’era tempo per i giochi, la scuola, l’oratorio. «A volte, ho l’impressione di non essere mai stato bambino. La guerra è stata terribile: lavorare per i tedeschi a 10 anni non è uno scherzo. Gli alleati bombardavano in continuazione. Quando è finita, ne avevo 13. L’Italia era in ginocchio. Solo i ricchi potevano far finta che tutto andasse bene, garantire ai figli un futuro al sicuro. Mi hanno spedito subito a bottega da un sarto. A imparare. Un mestiere bellissimo, che mi ha preparato a quello che poi avrei fatto».

 

Mimma

Piero è un ragazzino svelto, abilissimo: taglia, cuce, sceglie i tessuti. Cresce convinto che quella del sarto sarà la sua professione. Poi, “Il 20 maggio 1957”, conosce Mimma, una ragazza bolzanina scesa a Piazzola a trovare degli amici. Colpo di fulmine. Un grandissimo amore. «Il 20 settembre ci siamo sposati. Il giorno dopo ho salutato il sarto, e mi sono trasferito a Bolzano». Uno così non si ferma davanti a niente. Piero risponde ad un annuncio: cercano un aiutante in lavanderia. «Sempre di vestiti si trattava, mi sono presentato qui, in via Vintler, proprio dove sono in questo momento. Era il 3 ottobre 1957. Si teneva aperto anche la domenica fino a mezzogiorno».

Il padrone è una brava persona, un austriaco che lo accoglie come un figlio. Nel 1973, Piero rileva il negozio. La clientela cresce. Con Mimma apre un altro lavasecco in via della Rena. «Si lavorava tanto. I problemi sono arrivati con i tessuti sintetici. Sono molto difficili da pulire. Devi usare bene i macchinari e i prodotti chimici. Pure i jeans ci hanno dato filo da torcere: la gente li ficcava direttamente in lavatrice a casa, e tanti saluti». Ma per tutto il resto, per le “macchie impossibili”, come le definiva la pubblicità del Bio Presto, «non c’è niente di meglio di mettere i capi nelle mani di gente esperta. Una soluzione esiste sempre. Per questo il pulisecco “Vienna” è ancora aperto». Il ferro da stiro sbuffa. L’oblò del lavasecco mitraglia camice, cappotti, lenzuola e pantaloni di ogni forma e colore. Piero si solleva dalla sedia, si aggrappa al tavolo da stiro e da lì al bancone. «Ci pensa? Quasi 70 anni in questa strada. Ho clienti che venivano da bambini insieme alle mamme, poi da adulti con i figli piccoli, e oggi da nonni vengono con i nipotini. Finché Dio vorrà, sarò sempre qui ad accoglierli». 













Scuola & Ricerca

In primo piano