IL LIBRO

Donato Carretta, il capro espiatorio della Roma ferita alle Fosse Ardeatine

Walter Veltroni nel suo libro “La Condanna” ricostruisce il linciaggio del direttore del carcere Regina Coeli il 18 settembre del 1944 «Lui che fece scappare Pertini e Saragat venne investito da una folla rabbiosa in cerca di vendetta». Il corpo venne appeso a testa in giù


Luca Fregona


Bolzano. Circondato. picchiato, denudato. un occhio sfondato. il sangue dalla testa. buttato nel tevere. finito a colpi di remi. il corpo poi appeso a testa in giù. walter veltroni ha scelto la storia di donato carretta, direttore del carcere romano di regina coeli, per raccontare il caos del 1944. la roma dell’attentato di via rasella (23 marzo), della strage delle fosse ardeatine (24 marzo). la roma liberata dagli americani (4 giugno). la roma fascista che si risveglia, di colpo, antifascista. che cerca un colpevole per i bombardamenti, la guerra, gli eccidi. il capro espiatorio che va sgozzato per disinnescare la rabbia, riportare l’ordine, lenire il dolore. solo che, il 18 settembre 1944, roma, sceglie la vittima sbagliata. tutto questo (e molto altro), veltroni, già direttore dell’unità, vicepresidente del consiglio e sindaco della città eterna, oggi scrittore a tempo pieno, lo ha messo dentro il suo ultimo libro “la condanna” Edito da rizzoli.

Veltroni, chi era Carretta?

«Fino all’8 settembre del ’43 un uomo allineato con il regime. non aveva la tessera del partito, stava nelle retrovie, ma è evidente che non ti tengono a dirigere un carcere se non sei politicamente affidabile».

Aveva fama di duro. Tollerò le violenze di una guardia fascista particolarmente brutale con i detenuti politici...

«Era organico alla dittatura. faceva parte, come la maggioranza degli italiani, della zona grigia che si mimetizzava tra complicità, quieto vivere e indifferenza. dopo l’8 settembre, carretta apre gli occhi e si schiera. lo fa con coraggio, utilizzando la sua posizione per aiutare chi si batteva contro tedeschi e fascisti. fa scappare dalla galera pertini e saragat. poco prima dell’arrivo degli americani, libera i detenuti per salvarli dalle rappresaglie dei nazisti. suo figlio, finito in un lager tedesco, si era rifiutato di aderire alla repubblica sociale. insomma, carretta aveva capito molte cose sulla vera essenza dei fascismi».

Quando Kappler chiede una lista di 50 detenuti per la rappresaglia di via Rasella, lui cosa fa?

«I nomi li sceglie il questore di Roma Pietro Caruso, lui sì, un fascista fanatico, un criminale vero, razziatore dei beni degli ebrei, esecutore zelante degli ordini dei tedeschi, colluso con la banda Koch. Carretta cerca mille scuse per salvare tutti quelli che può, spedendoli in infermeria. Dopo la liberazione della città, Caruso viene arrestato. Lunedì 18 settembre 1944 va a processo al Palazzaccio. Carretta era uno dei testimoni dell’accusa. Doveva inchiodarlo per le Fosse Ardeatine».

Cosa succede?

«L’attesa per il processo era altissima. Già di prima mattina centinaia di persone spingevano al cancello in attesa di entrare. C’era un clima di caos, di vendetta, una violenza palpabile pronta ad esplodere. L’odio dominava verso i gerarchi opportunisti, le spie, i torturatori. Ogni romano aveva qualcuno da piangere. La folla irruppe in aula come una muta feroce. La confusione era tale che l’udienza venne rinviata subito. Una decisione che infiammò ulteriormente gli animi. C’era la ricerca di un altro capro espiatorio da sacrificare al volo».

Carretta?

«Sì. Carretta, quel giorno, si mette il completo buono. La giacca, la cravatta, i capelli impomatati con cura. Saluta la moglie. Esce di casa convinto di fare la cosa giusta...».

E invece?

«Appena arriva davanti al tribunale, qualcuno, in quella massa delusa dal rinvio dell’udienza, lo scambia per Caruso (che invece era al sicuro, protetto dai carabinieri). La folla ondeggia, lo insulta, lo tira per la giacca, lo tira per i capelli. Lui prova a difendersi. Grida:“Non sono io, non sono io Caruso”».

Ma la folla non ascolta...

«Ormai è sorda. Una donna, Maria Ricottini, urla che il figlio è stato ucciso dai nazisti per colpa sua. Gli punta il dito in faccia. Questa accusa rimbalza di bocca in bocca. La gente lo strattona, lo trascina giù dalle scale fino in piazza. Anche altri, che lo riconoscono per chi è veramente, iniziano a imputargli la morte dei familiari a Regina Coeli e alle Fosse Ardeatine. Carretta viene preso a calci e pugni. Con un colpo gli sfondano l’orbita dell’occhio sinistro. È un linciaggio».

Solo due persone tentano di salvargli la vita: un carabiniere e un tranviere...

«Sì, il carabiniere, il tenente Giambattista Vico, cerca di caricarlo su un’auto di servizio. Quasi ci riesce, ma poi la folla circonda la vettura e tira fuori Carretta. Vico lo vede allontanarsi immerso in un magma impenetrabile di braccia e gambe».

Lo stendono sulle rotaie, bloccano il tram in arrivo, ordinano al conduttore di investirlo...

«Gli dicono di “farne salsicce”. Ma lui si rifiuta. Si chiamava Angelo Salvatori. Era iscritto al partito comunista. Salvatori si rende conto che quel linciaggio non ha niente a che vedere con la giustizia. Mostra alla folla la tessera del Pci. Dice: “Non sono un fascista e non sono un assassino”. Scende e toglie la manovella che mette in moto il tram, in modo che nessuno si azzardi a uccidere Carretta schiacciandolo».

La folla alza Carretta dai binari...

«Lo portano di peso fino a ponte Umberto. Ormai lui è a torso nudo, in mutande. Un simulacro d’uomo. Picchiato, oltraggiato, vilipeso. Lo gettano nel Tevere. Carretta va su e giù come un galleggiante. Annaspa e riemerge. Il volto tumefatto, il sangue che scende dalla testa, l’occhio sfondato, ma è vivo. Può essere ancora salvato...»

Ma non succede...

«No. Si aggrappa a una specie di steccato che attraversa il fiume. Alcuni giovani che prendevano il sole in costume lo raggiungono a nuoto. La gente sul ponte si sbraccia, urla. Ammazzatelo! Ammazzatelo! Carretta cerca di tirarsi fuori dall’acqua issandosi sullo steccato. Implora aiuto».

E quelli?

«Gli fanno mollare la presa. Lo rispediscono nell’acqua torbida. Carretta, travolto dalla corrente, raggiunge una barca. Gli uomini a bordo lo finiscono a remate colpendolo sulla testa. Lui perde i sensi e sprofonda, faccia in giù, nel fiume. Il corpo, recuperato dal Tevere, viene trascinato sul selciato e appeso per i piedi alle inferriate di Regina Coeli. Un corpo in mutande. Un corpo oltraggiato che gronda sangue. Un’immagine che anticipa di qualche mese piazzale Loreto. L’autopsia accerterà che è morto affogato».

Intanto arriva la moglie...

«Sì. La scena che le si spalanca davanti è terribile. Donato a testa in giù seminudo. Lei piange tra gente che ride e la dileggia. È sconvolta. Suo marito che si era rimesso in gioco, che aveva rischiato la vita contro i nazifascisti, esponendo anche la famiglia, ha fatto la fine che spettava all’uomo che quel giorno avrebbe dovuto accusare in aula: Pietro Caruso».

Davanti al tribunale c’è anche il regista Luchino Visconti. Con una troupe deve riprendere per gli Alleati le fasi del processo. Invece filma un linciaggio...

«Le immagini, tremende, di Caretta circondato e picchiato verranno montate, ma senza le fasi finali della morte».

Perché?

«Erano troppo forti (e anche imbarazzanti) per l’Italia nata dalla Resistenza. Per opportunità politica, per una sorta di auto-censura, si preferì eliminarle».

Qualcuno ha pagato per la morte di Carretta?

No. Nel dopoguerra si tenne un processo farsa che si concluse con condanne simboliche. Venne fuori che Maria Ricottini e l’uomo che lo aveva accusato di aver mandato a morte figli e parenti alle Fosse Ardeatine, avevano mentito. Erano persone instabili e inattendibili, che si erano auto suggestionate».

Le masse possono fare paura...

«Sì. Per questo mi spaventano certi populismi, le ricette facili che indicano sempre un colpevole da far fuori per ripristinare miracolosamente l’ordine».

Per raccontare la storia, lei usa l’espediente narrativo di un’inchiesta giornalistica commissionata, oggi, anno 2024, dal caporedattore di un quotidiano a un giovane neoassunto...

«Sì. Giovanni, il ragazzo, mette il nome di Carretta in google e si presenta giorni dopo con un pezzo documentatissimo su Ferdinando Carretta. Un pezzo perfetto ma... sul Carretta sbagliato».

Ferdinando Carretta, il ventisettenne che nel 1989 uccise a Parma mamma, papà e fratello ...

«Esatto. Quando il giovane cronista si rende conto dell’errore, capisce che deve fare un’inchiesta alla vecchia maniera. Meno web e più vita reale. Recupera gli atti del processo, ripercorre a piedi i luoghi, studia le storie personali, cerca i testimoni, si immedesima in quegli anni, nella Roma di ottant’anni fa. E si pone una domanda: io, cosa avrei fatto?».













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