Addio Maestro, hombre vertical La fiamma rossa  non si spegnerà 

Dal 1976 a La Repubblica. Su Epoca aveva raccontato Thoeni e gli altri grandi dello sci, alla Marcialonga aveva conosciuto la moglie Paola Gius. Diede un terribile voto 2 a chi cambiò il nome al Giro del Trentino 


Carlo Martinelli


Il Maestro ha chiuso le ali, ha riposto la macchina da scrivere. Morire all’alba del primo giorno di primavera, la primavera più difficile ed irreale toccataci in sorte, dalla seconda guerra mondiale in poi. Così è stato, ieri mattina, per Gianni Mura, il più grande cronista sportivo italiano, degno erede - benché disdegnasse il paragone - di Gianni Brera. Si è spento all’ospedale di Senigallia, in provincia di Ancona, per un attacco cardiaco. Era nato a Milano nel 1945, in ottobre, quando la guerra era ancora ricordo lacerante, doloroso, presente.

Se ne è andato nei giorni della grande paura. All’epidemia ha dedicato il suo ultimo scritto, in quella rubrica “Sette giorni di cattivi pensieri” su Repubblica, il quotidiano dove aveva trovato casa dal 1976 , che per migliaia di lettori era appuntamento irrinunciabile, atteso, vivificante. “Imbecilli senza confini ma la brava gente è di più”, ha scritto riguardo a quel che ci sta accadendo.

Il più grande? No, un grande

Già. Perché se è vero che è stato il più grande giornalista sportivo - più grande anche di Brera, si è detto, “perché più buono” - si può tranquillamente aggiungere che è stato un grande giornalista e basta. Capace di spaziare tra sport, enogastronomia, musica e poesia, sempre illuminato da una umanità burbera e sincera che resterà per sempre la sua cifra distintiva e sempre guidato da una curiosità culturale onnivora, instancabile, appassionata.

Aveva iniziato nel 1964, garzone di bottega alla Gazzetta dello sport, poi transiterà per il Corriere d’informazione, l’Occhio ed Epoca: di quest’ultimo storico settimanale si ricordano i suoi reportage in Alto Adige sulle tracce dei grandi campioni dello sci, da Thoeni a Plank. A metà degli anni Settanta l’approdo a Repubblica.

La Marcialonga e Paola Gius

Pochi anni prima, dalle parti della Marcialonga di Fiemme e Fassa, l’incontro con Paola Gius, figlia di ristoratori trentini: diventerà sua moglie, compagna di una vita - ieri mattina era con lui, all’ospedale, a tenergli la mano, mentre partiva per l’ultima tappa - e complice di scritture e recensioni enogastronomiche con una rubrica, “Mangia e bevi”, che ha sempre sposato qualità, genuinità e simpatia. Di qui, se volete, le randellate mai risparmiate ai masterchef imbellettati di tivù. Una costante, quello scagliarsi disincantato e a volte tenero, contro consumismi vuoti, riti da protagonisti più che da professionisti. In cucina come nello sport. Un paio d’anni fa si chiese cos’aveva di speciale un tale Neymar per costare 40 volte Maradona. Nulla, nada, rien, rispose. Un buon giocoliere, rissosetto alquanto, intelligenza calcistica non eccelsa. Finì con i procuratori: «Faranno il loro mestiere, come i boia, del resto».

Ha scritto di calcio come nessun altro e dunque immaginatevi come ha saputo raccontare il ciclismo, che ha amato e seguito per una vita.

Nella carovana del Tour

Per decenni, immancabile, nella carovana del Tour de France. I suoi articoli sinfonie a spasso tra il sudore dei ciclisti, i profumi delle tavole imbandite, l’immancabile bottiglia di vino, i riferimenti ai paesi attraversati, le canzoni riscoperte. Proprio quella sua adesione ad un’idea di ciclismo fatta di popolo, fatica e dignità - amava l’hombre vertical e lui quello era, uomo tutto d’un pezzo, sincero fino a fare male - lo portò nel dicembre 2016 ad affibbiare un terribile voto 2 (i suoi giudizi inappellabili erano temuti, eccome) a chi aveva avuto l’idea di cambiare il nome del Giro del Trentino in Tour of the Alps. In fondo, sport e cucina si toccavano ancora: parla come mangi, era sottinteso.

Però, sempre nell’appuntamento di fine anno nel quale stilava la sua personale classifica dei cento nomi - non solo dello sport - che avevano segnato l’anno medesimo, arrivò a dare un voto altissimo agli Abies Alba, un gruppo di musica popolare trentino. Perché questo cercava e raccontava Gianni Mura: l’autenticità. Si imbeveva di storie ma guai a raccontargli storie posticce, artificiose.

Ischia e l’altopiano di Piné

Aveva due luoghi eletti ne quali ritirarsi, discreto. L’isola d’Ischia, dove ha ambientato i suoi romanzi gialli, quelli con l’ineffabile commissario Jules Magrite, con i baffi, le maglie a righe, la passione per i cibi di qualità e i vini d'annata (ma guarda un po’…). E l’altopiano di Piné, in Trentino, a caccia di funghi e di buoni piatti.

“Non gioco più, me ne vado”: aveva voluto dare questo titolo ad una raccolta dei suoi articoli più importanti. Un titolo programmatico, una dichiarazione d’intenti. Lui, che si ostinava a battere sui tasti di una Olivetti 22 ed ignorava bellamente i computer - nelle sale stampa lo si sentiva da lontano quel ticchettìo - si concedeva invece con generosità inusuale a chi in qualche modo sentisse complice della sua idea del mondo, dello sport, della vita.

Prefazione da brividi

Così nel 2012 firma la prefazione di una antologia di racconti, “Io sto qui e aspetto Bartali”: 17 storie di fughe, curve, Dolomiti e paracarri. A rileggerla oggi, quando se tutto fosse stato normale avrebbe scritto della Milano - Sanremo (che non c’è stata e non c’è più neanche lui, maledizione), vengono i brividi: «La nostalgia parte per alcuni dal tempo delle biglie, per altri dalla prima volta che hanno visto una corsa. La mia, di me che aspetto Bartali, e lo aspetto su una salita ma avrei potuto pure aspettarlo a Sanremo, di me che Bartali l’ho conosciuto quando aveva smesso e al Giro viaggiava su una macchina scoperta, nasce da Bartali e dei suoi tempi che non ho vissuto, ma che mi ha descritto molto bene, in tante tappe su quella macchina scoperta. Un po' preoccupato, perché con una mano reggeva la sigarette e guidava, con l'altra salutava le popolazioni osannanti. Ogni tanto si fermava in un paese, uno qualunque, e regolarmente si finiva al bar. “Vedi, io non ho guadagnato molto correndo, ma in ogni paese d'Italia sono sicuro che troverò qualcuno che vuole stringermi la mano e pagarmi da bere, e farsi una foto con me. E questo vale più di un bel conto in banca, è come una medaglia”. Così mi disse, e aveva ragione».

Dovremmo dire del suo impegno etico e civile. Di quel suo altro libro, “Confesso che ho stonato”, le canzoni di una vita: Tenco, Endrigo, i cantautori francesi. O, forse, della “fiamma rossa”, il triangolino di stoffa che al Tour annuncia l’ultimo chilometro. Ci ha scritto un altro libro.

Questo sappiamo, oggi, orfani del Maestro: quella fiamma rossa non si è spenta. Sono le parole di Gianni Mura a tenerla ancora accesa, e così sarà a lungo, vogliamo credere. Chapeau.

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