Addio Aldo, il “bocia”e il “vecio”

Trento. Il virus che si porta via i vecchi (ma non solo quelli), si è preso anche il “vecio” del ciclismo italiano, il primo grande campione che il Trentino ha regalato all’Italia e non solo. Aldo...


CARLO MARTINELLI


Trento. Il virus che si porta via i vecchi (ma non solo quelli), si è preso anche il “vecio” del ciclismo italiano, il primo grande campione che il Trentino ha regalato all’Italia e non solo. Aldo Moser se ne è andato ieri mattina, all’ospedale di Trento, dove era ricoverato per il covid. Aveva 86 anni, era nato a Giovo il 7 febbraio del 1934. Capostipite di una dinastia di ciclisti, cosicché gli è toccato essere prima il “bocia” quando divenne professionista, nel 1954 (esordì al Giro di Lombardia e stupì un certo Fausto Coppi) per poi diventare il “vecio” di una famiglia (mamma Cecilia, indimenticabile) che al ciclismo ha regalato Enzo, Diego e Francesco. Certo, se il fratello minore - Checco era 17 anni più giovane di Aldo - diventa uno che vince tre volte la Parigi - Roubaix (basta questo per consegnare alla leggenda un ciclista, senza contare il resto) c’è il rischio di passare in secondo piano.

Ma la figura di Aldo Moser si staglia tra le più nobili e durature, comunque: vent’anni da professionista, migliaia di corse, combattivo e leale come sanno essere i figli della terra. Perché Aldo Moser è stato davvero un campione contadino, nato tra i campi di una valle dura, dove la fatica era tanta e dove anche correre in bicicletta diventava un modo di affrancarsi. Anche se a quella terra rimase sempre fedele.

Aldo Moser è il simbolo di un ciclismo in bianco e nero: contorni netti, volti scavati, occhi fiammeggianti, nessun esibizionismo. Taci e pedala. Era l’incubo dei telecronisti della Rai. Quando saliva sul palco per le interviste, strappargli una parola era un’impresa. In rete, ieri, il commosso ricordo di Fabrizio Schmid, trentino, uno dei principi della statistica sportiva in Italia, dice molto: “Corse dal 1954 al 1974 cogliendo 14 vittorie da professionista. Purtroppo non aveva volata e, come diceva il mio povero papà (che gli era amico da sempre): se arrivavano in 2 era secondo, in 3 era terzo, se arrivavano in 10 era 9° perchè il 10° non disputava la volata. Ha corso contro Bartali, Coppi, Magni, Bobet, Anquetil, Gimondi, Merckx e l'ultima stagione accanto al giovane fratello Francesco, destinato a divenire uno dei più grandi di sempre”. Già. Il “vecio” ha indossato maglie - Torpado, Leo Chlorodont, Emi, Maino, Vittadello, GBC, Filotex - che al solo nominarle disegnano il ricordo di una Italia che non c’è più.

Nel 1973, corse nella Filotex con tre dei suoi fratelli, Enzo, Diego e Francesco. Un record di famiglia che verrà insidiato solo dai quattro fratelli Petterson, svedesi. Il “vecio” ha corso sedici volte il Giro d’Italia e nel 1971, a 37 anni, gli riuscì anche di indossare la maglia rosa per un giorno, prima di lasciarla ad un altro trentino, Claudio Michelotto. La sua longevità sta nelle cifre: disputa quattro Mondiali con la maglia azzurra. Il primo, nel 1955, professionista da poco, a Frascati ed è 17°. Quella maglia azzurra conquistata a soli 21 anni testimonia quale impatto e quali speranze accese Aldo Moser agli esordi. Davvero sembrò sempre sul punto di esplodere e spesso a frenarlo fu la sua scarsa, per non dire nulla, attitudine alla volata. Forse fu anche tradito da quella generosità di figlio della terra poco avvezzo alle diplomazie e agli accordi che pure ci vogliono, quando sei in gruppo. L’ultimo mondiale è del 1971, a Mendrisio, dove arriva 19°. Che avesse gambe come pochi lo dimostra la strepitosa vittoria del 1959, a Parigi, nel Grand Prix des Nations a cronometro. Si impone davanti a Roger Rivière, re dell’ora (prima di Francesco Moser…). E poi, due volte vittorioso al Trofeo Baracchi, in coppia con Ercole Baldini, quando le corse a cronometro certificavano la grandezza di un ciclista. Le immagini ce lo consegnano poi tra gli eroi della leggendaria tappa del Bondone, 8 giugno 1956. Parte da Merano ed indossa le scarpe che la mamma gli ha fatto avere: solo che il numero è sbagliato. Sono piccole, soffre oltremodo nel pedalare. Quando riesce a cambiare, dopo decine di chilometri, è tardi. Arriverà comunque al traguardo - erano partiti in 87, in cima al Bondone, tra la neve ghiacciata, ne restano 41 - perché un figlio della terra non si arrende mai, men che meno se la corsa arriva dalle tue parti. Nel 2006, in occasione del 50esimo anniversario di quella storica tappa, al Teatro Sociale di Trento fu organizzata una serata speciale per ricordare l’avvenimento. Charly Gaul, che in quel giorno di tregenda fu il vincitore, era mancato poco prima, nel 2005. Venne la figlia, sul palco. Dove c’era anche Aldo Moser, al solito avaro di parole, ma capace di dispensare quell’impalpabile emozione che viene al cospetto di uno che ha corso - rispettato - con Coppi, Anquetil e Merckx. Ci fu un collegamento telefonico con Candidò Cannavò, storico direttore de La Gazzetta dello Sport. C’era un silenzio rispettoso, al Sociale, quella sera, mentre la voce di Cannavò – inconfondibile, con l’accento siciliano mai piegato dagli anni padani – ringraziava i trentini: ‘Perché voi, ricordando un grande campione che non c’è più e che è stato testimone di vera fatica e di una sorta di eroismo, aiutate ancora a credere nelle imprese, nella lotta, nel coraggio. Abbiamo bisogno di queste cose, di questi sogni”. Quelle parole, oggi, vanno rivolte ad Aldo Moser, campione umile, il “bocia” che divenne “vecio” per ricordarci che il ciclismo, quello della fatica e dei faticatori, è eterno.













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