l'inchiesta

Oltre lo sci, un “turismo delle relazioni” per guardare al futuro

Michele Nardelli: "Il numero chiuso è solo l'inizio ma non basta. Serve un turismo che permetta ai territori di vivere ed evolversi e ai visitatori di capirli"

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Ilaria Puccini


TRENTO. «Quando si arriva a dover limitare le quantità di turisti su un territorio o a imporre un numero chiuso, penso che si sia già arrivati a una situazione di emergenza. I problemi che affrontiamo oggi sono solo la punta di un iceberg che ha cause molto più profonde». Michele Nardelli è stato ricercatore politico, consigliere provinciale e regionale, cooperante - già presidente del Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani - e oggi la sua attività di studio si concentra sulla crisi climatica e l'impatto dei cambiamenti sulla vita in montagna.

«Le origini di questa crisi - afferma - vengono da lontano. In passato, per decenni abbiamo cercato di trasferire la vita urbana, con le sue dinamiche e i suoi comfort, in alta quota. Il turismo invernale è stato improntato sul modello Sestriere, un'industria di massa che però gli ecosistemi montani non possono reggere, nè a livello sociale nè a livello ambientale». Una forma di turismo "della performance", secondo Nardelli, in cui oggi siamo ancora largamente immersi, basato sul mordi e fuggi e sulle cartoline, a discapito della complessità dell'ecosistema montano che non è formato solo da vette - orografiche e non - ma dall'equilibrio tra tutte le sue componenti naturali. Qualcosa però sta cambiando.

«La monocultura economica in cui siamo ancora immersi comporta un indebolimento del territorio e gli addetti ai lavori lo stanno iniziando a capire - afferma Nardelli - e sempre più spesso puntano sulla diversificazione: sia temporale, andando quindi verso una stagionalità più diffusa, sia che riguardi l'accoglienza e l'offerta di attività sempre più variegate». Secondo Nardelli, il prodotto turismo è creato non solo dalla domanda ma anche dall’offerta degli operatori, che devono quindi puntare sulla qualità e a offrire esperienze più profonde ai visitatori: «Ad esempio, si può far capire ai turisti che dietro le malghe "da cartolina", una vita che comporta alzarsi tutti i giorni alle tre e mezza di mattina per mungere le mucche non è poi così agevole. Con queste esperienze si creano conoscenza e relazioni interpersonali tra ospiti e comunità».

Un turismo delle relazioni, lo definisce Nardelli, che non significa rinunciare all'intrattenimento ma che permette ai territori di vivere ed evolversi senza ridursi a uno stereotipo e ai visitatori di capirli. In Trentino, spiega, ci sono già diversi esempi di successo e realtà a cui ispirarsi: «Il più recente a cui penso è sulla Panarotta, dove nel primo anno di impianti sciistici chiusi, il numero di visitatori è stato significativo. Quel contesto ha permesso alle persone di sperimentare in libertà altre forme di sport al di fuori dello sci da discesa. Un'altro esempio è la Paganella, che da anni sta lavorando in questa direzione. E poi la Val di Funes, che punta alla valorizzazione dei luoghi per quello che sono o l'altopiano di Luserna, dove a partire dalla creazione di sentieri tematici legati alla storia e alle caratteristiche del posto è arrivato un successo inaspettato».

Ogni territorio, secondo Nardelli, può puntare su una propria unicità, rendendo protagonisti i vari attori, dai contadini agli artigiani, dagli allevatori ai negozianti. E le persone, se sollecitate con proposte di qualità, lo capiscono e lo apprezzano. «Per costruire soluzioni strutturali e non di emergenza serve creare alleanze tra gli ambientalisti e gli operatori della montagna.
La montagna può essere e va riabitata, ma con giudizio, anche a fronte del cambiamento climatico. In questo senso, davanti a noi si aprono delle interessanti prerogative di attività e di lavoro. Le comunità montane sono destinate a cambiare identità, ma il cambiamento dovrebbe essere arricchimento e non appiattimento su un modello urbano in nome del profitto».













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