«Sfogarsi senza più ragionare ecco il pericolo di Internet»

L’ex direttore di Repubblica domenica a Trento: «Democrazie alla deriva»


di Paolo Morando


di Paolo Morando

«La cosa che più mi preoccupa è la deriva in atto nelle democrazie occidentali, in Italia ma non solo, per l’effetto congiunto di tre crisi. La prima è quella economica, che ha lasciato sul campo una crisi permanente del lavoro, che riguarda soprattutto i più giovani. La seconda è la crisi prodotta dall’Isis e dall’attacco jihadistico criminale e assassino. E la terza deriva dall’inquietudine che nasce dall’ondata migratoria». Di tutto questo (e non solo) si parlerà domenica prossima a Trento, alle 21 in piazza Cesare Battisti, nell’incontro conclusivo del “Festival delle Resistenze” intitolato “L’informazione ai tempi di Internet”, con il giornalista Ezio Mauro intervistato da Alberto Faustini, direttore di Alto Adige e Trentino. Fino allo scorso gennaio alla guida di Repubblica, che ha diretto per vent’anni e di cui ora è editorialista, Mauro parla di un «effetto congiunto di queste tre crisi, che danno la sensazione a una fetta sempre maggiore di popolazione che il mondo è fuori controllo, che la situazione non sia governata. E che la politica sia fuori gioco».

Con quali conseguenze?

Il rischio è che chi è sotto l’effetto congiunto della pressione psicologica e anche materiale di queste tre crisi, faccia un passo in più. E oltre a sentire fuori gioco la politica, arrivi a dire che anche la democrazia non serve a nulla. O meglio: che la democrazia è un insieme di buoni princìpi che però serve solo per i garantiti, per gli inclusi. Il problema che fa da corollario a queste tre crisi, e da cui mi piacerebbe partire nel nostro discorso, è che la democrazia, che non contempla esclusioni, sa che durante il proprio cammino deve fare i conti con le disuguaglianze. Ma la radicalità della crisi ha trasformato in questi anni le disuguaglianze, che ci sono sempre state, appunto in esclusioni. Mentre la democrazia non prevede esclusi, persone per le quali i suoi princìpi non valgono. Quindi siamo a rischio di una crisi democratica, e non solamente noi italiani.

Alla crescita dell’elettorato che si rivolge a forse antisistema, in Italia e altrove, si è però già assistito in passato.

Il sistema che abbiamo conosciuto in questi anni è il sistema dell’economia sociale di mercato, di una democrazia che fa i conti con il capitalismo e prova a regolarlo, di un welfare che è in crisi ma che è una caratteristica delle nostre società europee, che dovrebbe essere sì modificato ma che va salvaguardato. Oggi però sono sempre più ampie le fette di popolazione che ne escono. E soprattutto lo fanno ingrassando un parco di antisistema che non propongono soluzioni, ma che chiedono semplicemente di andare in un altrove dove si fa di ogni erba un fascio, dove si dileggiano e si disprezzano le istituzioni.

Una massa crescente di esclusi che trova proprio in Internet lo sbocco per le proprie frustrazioni e pulsioni antisistema: la rete e i social network sono ormai diventati un circo di rissosità costante.

Crediamo di vivere in un mondo di connessione permamente. E non ci rendiamo conto di avere smarrito il filo tra la dimensione personale e quella pubblica. Non siamo più capaci di collegare i nostri problemi individuali a quelli degli altri, cercando soluzioni collettive. Internet dà questa illusione: che cioè nella solitudine della tua stanza, o seduto su una sedia dovunque, o sulla panchina di un parco, ti senti comunque dentro il grande dibattito collettivo. In realtà si è dentro una dimensione di pulsioni collettive dove contano soprattutto le opinioni più radicali, mentre non hanno spazio quelle mediane, più ragionate. Tutto questo benché in Internet vi siano possibilità immense, a partire dall’orizzontalità della discussione: è finito il tempo del pulpito, degli esperti che scaricavano in basso il loro sapere e di chi, stando in basso, lo poteva solo recepire. Ora il piano si è ribaltato. E poi ci sono opportunità di accesso infinite a qualsiasi conoscenza, si può usufruire di punti vista molto diversi tra loro. Questo è un pluralismo effettivo.

Con la conseguenza però di non saper più discernere tra punti di vista fondati o meno.

È così. Un saggio di Habermas e la pernacchia di un blogger gireranno assieme per l’eternità, senza alcun segno distintivo di una gerarchia. Non solo: c’è poi il rischio che Internet funzioni come una macchina in cui stanno tutte le risposte, che basti insomma riscuoterle. Rendendo inutile farsi domande e porsi dubbi. Il che è esattamente la negazione del concetto di pubblica opinione.

E infatti sui social network si commenta a botta calda, senza ragionare e verificare, sulla base del primo post che arriva, che spesso è appunto il più estremo. E che come tale entra subito in circolo, portandosi dietro centinaia di “like” e di commenti.

Si commenta senza vivere, si potrebbe dire. Come dimostra il caso della ragazza suicidatasi per i video a luci rosse usciti dal suo controllo, in balia di una rete onnivora. Perché il web è anche un posto in cui ci cibiamo delle vite altrui. Viviamo sul margine della nostra vita senza incontrare gli altri, pensando “tanto consumo queste cose solo nei ritagli di tempo, mentre sono al telefono al lavoro...”. Ma intanto vado, sbircio, guardo, faccio incursioni nelle vicende più intime, che ingolosiscono. E soprattutto non ci rendiamo conto che la rete amplifica, moltiplica e dilata i momenti di debolezza delle persone: non premia le performance positive, premia i momenti di caduta. Come è avvenuto nel caso di quella ragazza.

In questa nuova agorà, il tempo è una variabile indipendente e determinante: il primo che arriva è il più cliccato, seguito e commentato.

Internet va comunque vista come un’enorme potenzialità, di cui in questi anni si sono giovati i giornali e in generale l’informazione, dunque i cittadini. Una caratteristica per tutte: la contemporaneità e l’ubiquità. La rete è raggiungibile da qualsiasi lato e senza gerarchie apparenti. Ma soprattutto, grazie alla rete, io posso comunicare ora una notizia che avviene adesso. E vengo letto adesso, annullando quindi i tempi classici del lavoro giornalistico: i tempi di redazione, della tipografia, la stampa, il trasporto in edicola, il passaggio del lettore davanti a quella stessa edicola. Si realizza un sogno che il giornalismo ha probabilmente avuto da quando è nato.

Che strumenti ha l’informazione cartacea tradizionale per non restare stritolata in questo meccanismo?

Intanto i giornali non sono puro flusso. Per il flusso di Internet vale la stessa logica dei fiumi: contano la velocità di portata e la capacità di percorrenza. Che cosa c’è dentro conta meno: c’è di tutto, cose importanti e detriti. Il giornale invece trattiene alcuni elementi di notizia che scorrono in quel flusso e ne lascia perdere molti altri. In questa attività assolutamente discrezionale trattiene quegli elementi che sono portatori di senso, che sono capaci di illuminare di significato la giornata che abbiamo attraversato e la fase che stiamo vivendo. E in questa ricerca di senso sta il lavoro più nobile e profondo del giornalismo.

Il giornalismo come informazione critica: dove l’aggettivo identifica appunto la funzione del ragionamento.

E infatti il giornale si incarica ogni volta di costruire un contesto attorno alle notizie e al flusso. Il giornale ti dice: attento, questa vicenda ha un antecedente, guarda che qui ci sono interessi palesi ma anche occulti, sappi che è già successo qualcosa di simile in passato, ci possiamo proiettare sulle conseguenze... Il giornale non vive nel presente esclusivo, ma recupera un passato e lo mette sotto gli occhi del lettore, per analogia o per differenza. Si proietta sul futuro e, dopo aver fatto parlare tutte le parti in causa, alla fine si prende anche la responsabilità di dire come la pensa. E non perché il lettore debba pensarla come il giornale, che non è né un prete né un partito, non deve convertire o arruolare nessuno. Un giornale fornisce la sua visione dei fatti come elemento in più. E con tutti gli elementi, alla fine, il lettore può formarsi una propria opinione, che è l’unica cosa che conta. Se il giornale è uno strumento di costruzione dell’autonomia intellettuale e politica del lettore, allora vale infinitamente di più del suo prezzo di acquisto. Intendendo per giornale però il sistema complesso, cioè il giornale di carta e il sito. Perché i siti web dei quotidiani sono profondamente diversi dall’universo dei social network, non sconfinano nella morbosità.

Come nel caso che citava della ragazza suicida, di cui i quotidiani del Gruppo Espresso non hanno pubblicato il cognome. Resta però il fatto che i lettori dei giornali di carta continuano a diminuire. È solo una questione di anagrafe, per via dell’attitudine dei giovani a fruire dell’informazione in via digitale e gratis, informazione per lo più istantanea e senza profondità? E come li si può recuperare?

Pensando che Internet non è un avversario. I lettori di carta declinano in tutto il mondo ma, come ha detto anni fa il direttore dell’Economist, se li sommiamo a quelli del web mai nella storia ne abbiamo avuto un così grande numero come oggi. Il vero problema per le aziende editoriali è creare reddito attraverso il web, ma è un modello che nessuno ha ancora inventato. Su Internet vale la religione malintesa della gratuità: andrebbe invece compreso che il giornalista che segue la rivolta di piazza Tahir in Egitto, che ha raccontato l’assassinio di Sadat, che ha girato le capitali delle primavere arabe, ha un costo, che è quello della conoscenza e della costruzione della sua esperienza. E usufruire del corrispettivo di quel valore è qualcosa di più rispetto allo scambiarsi messaggi emotivi. Questo fa ancora la differenza: avere persone esperte. Ma la fase che stiamo vivendo celebra la disintermediazione, non si crede più nella qualità, nei valori della competenza. Sembra anzi che l’ignoranza sia garanzia d’innocenza. Un difetto della rete ma, come vediamo ogni giorno, anche della politica attuale.

D’altra parte quanto sostengono oggi Grillo e i 5 Stelle lo diceva Lenin già un secolo fa: anche la cuoca deve poter diventare Capo dello Stato.

Ma con una fondamentale differenza: dietro l’aberrazione di Lenin c’era l’idea di un partito e del suo ruolo. Nel caso di Grillo, come dimostrano le cronache, dietro non c’è alcun partito. E quando c’è, non è in grado di selezionare un gruppo dirigente, come a Roma. Con faide interne come neppure nelle peggiori correnti democristiane.

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