L’Italia del turpiloquio che nasconde il vuoto 

Francesco Merlo domani a Trento al Buonconsiglio con il suo ultimo libro «In questo Paese di chiacchiere inutili rimpiango gli uomini del silenzio»


di Paolo Morando


C’è chi studia e racconta gli eventi sostituendo alla cronologia la geografia: lo ha fatto lo storico tedesco Karl Schlögel, in “Leggere il tempo nello spazio”. Un metodo efficace, perché dici “guerra di Troia” e non sapresti dire quando avviene, ma la sai collocare appunto geograficamente: a volte i luoghi parlano più dei tempi. O il delitto Kennedy: in che anno? Facile sbagliare. Dove? Ma a Dallas, ovvio. E c’è chi lo ha mutuato, questo metodo, ricalibrandolo: è il giornalista Francesco Merlo, autorevole firma di Repubblica, che domani venerdì 8 dicembre sarà a Trento, alle 18 al Castello del Buonconsiglio, per presentare il suo ultimo libro “Sillabario dei malintesi. Storia sentimentale d’Italia in poche parole” (Marsilio, 416 pagine, 20 euro), in dialogo con chi scrive e con Gian Paolo Caselli, economista all’Università di Modena e Reggio Emilia. Sillabario perché ai luoghi, a sua volta, Merlo ha sostituito le parole: «La guerra di Troia - spiega - puoi raccontarla anche meglio proprio a partire dalle parole: cavallo ad esempio, ma anche tradimento, o bellezza». Sono pagine articolate in 79 termini che hanno fatto la storia d’Italia: si aprono con “Monarchia”, “Stile” e “Rotocalco” per chiudersi con “Rottamare”, “Patria” e il “Matria” di ultimo conio. Ma anche passando per “Malaria”, “Terrone”, “Lucciole”, “Comunismo”. E “Torni a bordo, cazzo!”. L’indice dei nomi da solo rende conto della densità del Sillabario: se ne citano addirittura 884. Il più nominato è Berlusconi, in 45 pagine, segue Grillo a 36. Renzi è solo quarto (24), sopravanzato da Leonardo Sciascia con 28. E qui c’entrano la sicilianità e il disincanto che accomunano il catanese Merlo e lo scrittore di Racalmuto che, intervistato da Giampaolo Pansa, paragonò la mafia al costante avanzare verso nord della “linea della palma”.

Merlo, parole che contengono malintesi. Proprio a partire dalla prima, “Monarchia”.

Mio padre, di destra, votò per la Repubblica, mentre mia madre, di sinistra, votò Monarchia. Come fecero tanti altri, anche i primi presidenti della Repubblica De Nicola ed Einaudi, così come Scalfaro, Scalfari, Montanelli. Per ognuno di loro monarchia significava qualcosa di diverso. E quindi mi sono accorto che tutte le parole a cui pensavo per il libro non assomigliavano affatto al significato che indicano. Generando appunto malintesi.

Per questo il dibattito politico oggi è così caotico e volgare?

Direi invece che i malintesi servono a proteggere la realtà, non a offenderla. Si dice che la politica abbia sporcato la lingua. Ma io credo che la lingua italiana, attraverso parole che hanno mostrato capacità di esprimere anche cose tra loro contraddittorie, abbia difeso la politica.

Il primo malinteso italiano?

Senz’altro il trasformismo, filo rosso della storia della repubblica. Nasce in un momento storico preciso, a fine ’800, con la Sinistra che crea un governo assieme a esponenti della Destra storica: ed era un modo per risolvere problemi, sedare conflitti di classe. Poi ha subìto tante varianti arrivando fino a noi: oggi il Parlamento è pieno di gente che cambia continuamente casacca. E questa idea Berlusconi l’ha trasferita dall’ideologia al corpo, il proprio, con cui fa politica: dai capelli al lifting. Ma il termine “trasformismo” mantiene anche interamente tutto il suo significato nominalistico. Penso a D’Alema, a Veltroni, agli ex del Pci: quante volte hanno cambiato nome per restare sempre uguali.

Come dice il principe Salina nel “Gattopardo”.

Ma senza quella nobiltà. Penso piuttosto a Casanova, che solo cambiando ogni volta letto riesce a rimanere se stesso.

Lo specifico italiano sarebbe dunque cambiare semplicemente per galleggiare?

È questo il grande problema italiano. Pci, “La cosa”, Pds, Ds, Pd, quelli del Brancaccio, adesso “Liberi e uguali”: se penso a tutti i nomi che hanno caratterizzato queste trasformazioni mi viene la vertigine. Vale per tutti, ma dalla sinistra non te lo aspetteresti.

Faccia un solo nome per indicare l’archetipo della politica italiana del malinteso.

Sono tanti. Quand’ero giovanissimo sentivo parlare delle convergenze parallele, ora invece del “vaffa”. Sono due cose molto lontane, e certo Moro e Grillo umanamente non si somigliano, ma contengono una stessa impossibilità: la tensione verso obiettivi irrealizzabili. Quella formula, che peraltro Moro non pronunciò mai perché fu inventata da Scalfari, significava mettere assieme la cultura cattolica e quella comunista: ma lì vai dalla mafia all’antimafia, il diavolo e l’acqua santa. E per il “vaffa” è lo stesso: nasce dalla voglia di mandare tutti a quel paese, dalla rabbia italiana. Ma non appena la porti al governo, come fai?

Il “vaffa” al governo dunque non è altro che un ossimoro.

È chiaro: non puoi governare con il “vaffa”. Quindi lo tradisci. Penso a quella scena in cui Alberto Sordi manda tutti a quel paese, dalla moglie al capoufficio, poi seduto al gabinetto canta “e adesso me conforto e me consolo cor fatto de mannaceme da solo”. Questa è la fine del grillismo: basta vedere la Raggi. Ma anche le sue espressioni migliori come la Appendino.

Nel “Sillabario” cita anche tanti uomini del “Silenzio”: la parte migliore d’Italia, giusto?

Gli uomini del silenzio nel paese delle chiacchiere: perché c’è un modo di fare silenzio anche parlando molto. Penso ancora a Moro, che a un congresso della Dc parlò per otto ore senza che nessuno lo capisse.

Mentre Forlani, a chi lo intervistava e protestava perché non stava dicendo nulla, rispondeva: guardate che posso andare avanti per ore.

Certo, Forlani. Mi raccomando, diceva, domande incisive e risposte evasive. Ma in Italia abbiamo avuto uomini silenziosi come Einaudi, Degasperi, Berlinguer, ma anche Alessandro Manzoni o Leonardo Sciascia. O Mina. Che parlavano tacendo. Ricordo un incontro tra Sciascia e Berlinguer, uno di fronte all’altro per un quarto d’ora senza parlarsi. E alla fine, a chi chiedeva loro com’era andata, risposero: magnifico, è stato bellissimo.

E Renzi? È forse l’ennesimo malinteso italiano?

Renzi incarna l’altro grande problema nazionale: l’incapacità della leadership. Non a caso non esiste un termine italiano per esprimere il concetto, se ne deve usare uno inglese non per amore dell’esotismo: da noi si parla di imperio, comando, dux.

Di uomo della provvidenza.

La vera eredità del fascismo è l’incapacità di governare la trasformazione. E se il comando diventa arbitrio, l’altra sua faccia è il bullismo. E questo spiega anche la vicenda Schettino.

In che senso?

Schettino e il comandante De Falco sono due facce della stessa medaglia. Il “Torni a bordo, cazzo!”, l’idea di esercitare così un ruolo di comando per convincerlo a salvare le persone, non funziona. E sono sicuro che a parti invertite Schettino avrebbe detto le stesse parole. Perché affidarsi al turpiloquio rivela proprio la mancanza di leadership.

La sdoganamento della parolaccia nel discorso pubblico è ormai irreversibile?

La parolaccia la usa anche Dante nella “Divina commedia”, così come Joyce: se utilizzata bene funziona, esprime. Il problema è che la si utilizza come scorciatoia: significa che non sai più cosa dire. Manzoni poteva liquidare Don Abbondio come un cacasotto, ma così non ne avrebbe fatto un archetipo. E quindi torniamo al “vaffa” in politica, che esprime solamente il vuoto di chi lo pronuncia.

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