«Il Covid ha cambiato il nostro modo  di pensare la casa» 

L’intervista. L’architetto Claudio Lucchin alle prese con una nuova idea degli spazi quotidiani «I balconi sono diventati il luogo della socializzazione, lo sguardo aperto verso l’”altro”» Addio alle terrazze arredate come barriere verso l’esterno, saranno sempre più stanze di vetro 


Paolo Campostrini


Bolzano. Le feste ci colgono in casa. Ma non è più come prima perchè non ci stiamo ormai solo per scelta ma, sempre più spesso, perchè costretti. «Abbiamo da mesi smesso di vederla esclusivamente come possibile rifugio e luogo del cuore per viverla invece come barriera verso l’esterno» dice Claudio Lucchin. Oppure anche come prigione, architetto? «Questo è il rischio. Legato anche al modo con cui l’abbiamo organizzata finora». Intende, il progettista di tanti edifici strategici, come il “Noi” di Bolzano, oltrechè studioso di spazi domestici e ambiti urbani, come è stata prima del Covid. Prima, cioè che le stanze diventassero d’improvviso più strette. Dovendoci ormai anche lavorare ( in smartworking), condividere presenze ( di figli non più a scuola), mangiare in tanti e nello stesso tempo (visto che i ristoranti sono chiusi la sera). Tanto che Lucchin ha messo insieme una serie di parametri, rispetto al luogo fisico in qui viviamo, che costituiscono una sorta di nuova geografia dello spazio domestico applicato ai tempi nuovi . E che magari non finiranno con l’esaurirsi della pandemia ma proseguiranno, come ad esempio il sempre maggior ricorso al lavoro non in presenza. Sono: la cura, («la casa ha bisogno di più attenzioni»); la connessione («dovremo evitare di isolarci attraverso gli strumenti della comunicazione tecnologica»); le attrezzature (« nuove e più pratiche cucine...»); e infine gli spazi esterni da ripensare.

Iniziamo da qui, architetto?

I luoghi all’aria sono stati grandemente rivalutati col Covid. Pensiamo ai plateatici dei bar e dei ristoranti. Abbiamo capito che il virus ama gli interni. Bene: ma anche in casa occorre rivedere la questione.

Si riferisce alla grande richiesta di balconi e di giardini annessi agli immobili dopo marzo?

Non solo. Penso a chi un balcone lo ha già. E sono in tanti. Quando ero ragazzino il balcone era invece un lusso. I miei non lo avevano, per dire...Chi poteva permetterselo, come pure una terrazza, lo esibiva più che viverlo, quasi rappresentasse uno status sociale. Ecco, ora è arrivato il momento di viverlo pienamente.

E in che modo?

Smettere di immaginarlo e arredarlo come una barriera verso gli altri. Abbondano terrazze inondate da alberi o piante poste proprio a ostacolo per la vista. Certo, lo si fa per impedire la vista dall’esterno. Ma così facendo , impediamo anche a noi di vedere fuori. Guardare la luce, il paesaggio. Immagino invece abitazioni aperte verso l'esterno. Ma lo intendo anche in senso sociale.

Cioè in comunicazione con gli altri?

È così. Ripenso agli esterni delle case mediterranee, nel nostro Sud. Il “fuori” è visto come luogo di relazione e la casa non si chiude ma si affaccia verso gli altri. Il salotto è la porta d’ingresso, l’atrio che si porge sulla strada. Senza arrivare a questi contesti, penso che le abitazioni post Covid intenderanno sempre più il balcone o la terrazza come stanze, solo senza il tetto».

E questo perché?

Si è compresa, con l’isolamento, l’importanza delle relazioni. Del vivere con maggiore socialità.

Ma in tanti casi, le abitazioni si sono rivelate inadeguate alla nuova struttura della giornata in tempo di pandemia.

È così. Per questo parlavo di “cura” da dedicarvi. Dobbiamo avere la percezione di starci bene, in casa. E oggi il rischio è invece di scontrarsi con gli altri abitanti , a loro volta sempre più stabilmente in casa.

Soluzioni?

Ripensare gli spazi. Partendo dall'arredarli bene, senza più accumuli di oggetti. E poi la privacy. Si è compreso che è essenziale.

Ma nelle case piccole, che sono la maggioranza nelle nostre città?

Basta un angolo. Ma curato. Un piccolo spazio personale in cui racchiudere il proprio hobby. Una mini scrivania col computer. Un angolo della libreria. Possibilmente poche pareti cieche. Privilegiare le aperture. Il vetro, ad esempio, crea privacy ma non priva delle luce.

L’altro elemento che ci ha condizionato è la necessità di portare a casa gli strumenti del lavoro.

E questo ci porta alla necessità di immaginare un'abitazione sempre più connessa. Stare soli non sempre è bello. Per questo le dotazioni tecnologiche saranno più presenti nelle stanze. E non più poste a caso ma coordinate e in spazi funzionali. Non basta il computer. Perché la gente vuole anche sentire voci e toni. Serve il telefono o la possibilità di interagire attraverso apparati con più accessi.

Non c'è il rischio di chiudersi sempre più in confortevoli spazi privati?

Certo che esiste. Ma ora è una necessità. Penso invece che dotare le abitazioni di comodità tecnologiche, luoghi e angoli dedicati ai propri interessi non lavorativi, vada posto in relazione con l’idea di una casa più flessibile, multifunzionale ma anche con sempre più aperture verso l’esterno. Meno rifugio-barriera e più luogo di incontri.













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