A Bolzano arriva Toni Servillo «Il teatro? Serve a resistere»

Bolzano. Louis Jouvet è stato uno dei più grandi attori francesi a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, allievo di Jacques Copeau e divo del cinema e regista. A lui si ispirata Brigitte Jaques per...



Bolzano. Louis Jouvet è stato uno dei più grandi attori francesi a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, allievo di Jacques Copeau e divo del cinema e regista. A lui si ispirata Brigitte Jaques per scrivere “Elvira”, diretto e interpretato da Toni Servillo, che il Teatro Stabile di Bolzano porta al Teatro Comunale di Bolzano da mercoledì 20 a domenica 24 novembre (merc. 20-sab 23 novembre h.20.30; dom. h. 16.00). Riallestita a Bolzano per essere presentato poi a Ravenna e a Parigi, dove è ambientato, la commedia venne portata in scena in Italia nel 1987 da Giorgio Strehler. Attore, regista, sceneggiatore e doppiatore, Toni Servillo ha alle spalle una lunga carriera costellata di film di successo (tra i quali La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino che ha vinto il Premio Oscar e il Golden Globe) e tantissimo teatro in tutta Europa, vissuto sia sul palco che dietro le quinte come direttore. Lo abbiamo intervistato su Elvira.

Dopo anni in cui si è confrontato, in un modo o nell’altro, con Louis Jouvet, adesso è arrivato all’incontro diretto. Com’è stato questo incontro? E soprattutto, perché ha voluto incontrarlo? Ha scoperto ancora di lui che non sapeva?

Ho scelto di mettere in scena questo testo per tante ragioni, a cominciare da una sorta di debito di riconoscenza che sento verso Louis Jouvet, un vero gigante del teatro europeo. Una guida preziosa che ho tenuto ben presente nell’affrontare repertori diversi, da Molière a Marivaux, da Goldoni allo stesso Eduardo. Il testo nasce da un’esperienza reale, le lezioni sul Don Giovanni di Molière tenute da Louis Jouvet al Conservatoire di Parigi nel 1940, da cui Brigitte Jaques ha tratto sette scene fulminanti che seguono il rapporto creativo tra il maestro/regista e la sua giovane allieva/attrice, attorno al ruolo di donna Elvira. Dopo tanto tempo, mi è parso necessario che arrivasse il momento di un incontro diretto, preceduto da alcune coincidenze. Dalla conoscenza casuale del volume Spettri miei compagni di Charlotte Delbo (la persona che aveva stenografato le lezioni di Jouvet), alle sollecitazioni di Michel Bataillon, un importante uomo di teatro francese, sull’opportunità di mettere in scena “Elvira” a mia misura. Abbiamo affidato a Giuseppe Montesano la traduzione del testo, e abbiamo inaugurato nell’ottobre 2016 la settantesima stagione del Piccolo Teatro di Milano e poi intrapreso una tournée internazionale che si concluderà a metà dicembre Parigi dopo oltre duecento repliche.

A lei personalmente cosa affascina di più nel processo di creazione di un personaggio?

Personalmente credo che il nostro mestiere in questi anni conosca, sul piano popolare, una sorta di banalizzazione, quando non di volgarizzazione. C’è una malintesa concezione del talento, che molto spesso è solo espressione generica di una capacità funambolica, che ha poco a che fare con l’interpretazione di un classico e di un personaggio, rispetto al quale di questo talento non sai cosa fartene. Credo che, invece, sia un mestiere pericoloso, se vogliamo, perché ti costringe ogni volta al confronto con te stesso. È l’esatto contrario dell’ovvietà, del cinismo, della via facile che oggi mi pare molto in voga.

Qual è secondo lei il giusto rapporto e quali sono le giuste distanze tra maestro e allieva, tra regista e attore?

Uno dei problemi del nostro tempo è proprio la trasmissione dei saperi, perché ci vorrebbe da una parte l’assunzione di responsabilità di chi li trasmette, e dall’altra la disponibilità di chi deve accoglierli. Nella relazione maestro/allieva si realizza un complesso rapporto maieutico dove ciascuno impara dall’altro. E sul lavoro dell’attore, Jouvet dice chiaramente che non è la recitazione a generare il sentimento, ma è il sentimento in cui è l’attore, in quel momento, a generare la recitazione. Una riflessione sul teatro che al teatro non si limita soltanto al teatro.

Quello dell’attore è un lavoro? O una passione? O una missione? Quanta fatica costa diventare un buon attore?

Come ho detto,credo che il mestiere dell’attore in questi anni conosca, sul piano popolare, una sorta di banalizzazione. Per contrastarla efficacemente, serve allora una sorta di cultura personale e di disciplina, perché gli attori sappiano che quando si misurano con un testo si confrontano con un materiale poetico, che essi stessi devono diventare poesia vivente. D.M.















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