l'intervista

Vita spericolata di Luigi Sardi: il giornalista pieno di passione

La guerra, le bombe americane, i rifugi antiaerei in piazza Venezia. Poi la lunga carriera da cronista di razza, e anche oggi...


Jacopo Strapparava


TRENTO. Luigi Sardi, com’è diventare vecchi?

«Faticoso. Io ho fatto mille volte il Palon con gli sci. Giocavo a tennis, andavo in barca a vela, ho corso due maratone. Ora cammino con il bastone, i miei nipoti mi prendono in giro. “Nonno, sei lento come una lumaca!”».

Quanti anni ha?

«Sono nato a Como il 23 agosto 1939. Il giorno in cui Molotov e Ribbentrop firmarono il patto di non aggressione. Anche se questo, ovviamente, lo venni a sapere dopo».

Chi erano i suoi?

«Silvio e Luigia Sardi. Lui bresciano, sindacalista nei sindacati fascisti. Lei comasca, operaia nei setifici della zona. Ignoro come si fossero conosciuti. Un tempo i genitori non raccontavano queste cose».

Come siete venuti a Trento?

«Mio padre era bersagliere. Fece la Grande Guerra. Poi l’Etiopia – tutte le guerre sono stupide e assurde, quella fu la più assurda e la più stupida di tutte. Nel 41’ volevano mandarlo in Russia, ma soffriva di asma bronchiale e la scampò. Lui finì di stanza a Bolzano, io e mia madre venimmo a Trento per stargli vicino. Abitavamo in via Venezia, al civico 47».

Qual è il suo primo ricordo?

«Ero in una grande caserma. Mio padre in divisa. Io che facevo correre una biciclettina cui qualcuno aveva legato tre piccole bandiere. Una con la svastica. Una con il Sol Levante. E un tricolore con lo stemma dei Savoia. Le bandiere del Patto tripartito».

Ci racconta della guerra?

«Non dimenticherò mai il 2 settembre 1943. Mia madre mi portava a fare delle iniezioni: anche io, come mio padre, soffrivo d’asma… pensi che l’infermiera, prima della puntura, canticchiava: “E se nel bosco incontri una fiera / non tremar: sarai camicia nera!”. E zac, mi colpiva… Insomma, mentre torniamo dalla cassa malati, suona l’allarme antiaereo. Di solito, quando suonava l’allarme aereo, non ci si faceva caso».

Ah, no?

«Il fronte era lontano, ci sentivamo sicuri. Ingenui. Gli aerei arrivarono, volavano bassissimi. Erano 19… anche se il Brennero, il giornale dell’epoca, il giorno per un refuso dopo scrisse che erano 91!... Mia madre mi buttò dietro un paracarro, lei si mise sopra di me. Fu un attimo. Un gran caldo. Una colonna di fumo nero. Tantissima polvere. Un’esplosione di colori – rosa intenso, giallo, rosso, azzurro – le bombe avevano fatto saltare i cavi elettrici e le bombole del gas. Non ricordo il rumore. Ricordo un cavallo impazzito dalla paura, il carretto che trainava aveva perso una ruota. Ricordo che la mia più grande preoccupazione era cercare di non sporcarmi il grembiulino».

Dopo cosa successe?

«La città piombò nel caos. Pochi giorni dopo, arrivarono i nazisti. Siamo sfollati a Civezzano».

E finita la guerra?

«Dove oggi c’è il lavaman del sindaco, gli americani distribuivano il rancio. La carne in scatola Spam. La Coca-Cola. La cioccolata. Le sigarette Chesterfield. Ci irroravano di DDT. Agli uomini lo spruzzavano sotto la camicia. Alle donne, sotto la gonna. A me a un certo punto lo spruzzarono pure in bocca. Si pensava servisse a prevenire la carie».

Perdoni la domanda: ma di cosa sapeva il DDT?

«Pizzicava».

Ma quando vi spruzzavano il DDT in bocca, nessuno protestava?

«Scherza?! Eravamo contenti. Era roba degli americani!».

Capisco.

«Pensi che una volta, dentro un pacco di aiuti, mia madre trovò un tubetto bianco con la scritta “Colgate”. Tutta contenta, mi preparò una fetta di pane e ce lo spalmò sopra. Pensava fosse pasta d’acciughe. Io: “Non mi piace”. E pam, una sberla».

E gli anni dell’adolescenza, come furono?

«Difficili. Mio padre ebbe un infarto, che lo rese invalido. Dovetti lasciare il liceo. Per un periodo ci trasferimmo dai parenti a Brescia. Lì facevo l’aiuto-fotografo alla 1000 Miglia, 150 lire a settimana. Quando tornammo a Trento, entrai nella redazione dell’Alto Adige in piazza Lodron. Era il 23, forse il 24 marzo 1959. Non avevo ancora vent’anni».

Come fu il primo giorno?

«Caposervizio era Massimo Infante. C’erano Piero Agostini, Manlio Morelli. Gian Pacher, gran prosatore, fu lui a insegnarmi a scrivere. Mi fu dato un pezzo di carta con scritto: “Luigi Sardi, porgitore di abbonamenti”. I primi anni furono duri».

All’epoca iniziare era più facile o più difficile?

«Oggi non so come sia. Una volta entravi e facevi la gavetta. Non eri nulla. Lavoravi tutti i giorni, domeniche comprese. Senza stipendio. Ti sorreggeva solo la passione. Posso raccontarle una storia che sconfina nella leggenda?».

Adoro le storie che sconfinano nella leggenda.

«Ero bambino. Finita la guerra, mio padre aveva trovato lavoro in una cava di porfido. Arrivò una lettera che ci invitava a Sella Valsugana. Nella DC si era sparsa la voce che quel Silvio Sardi nei sindacati fascisti si era comportato bene, volevano assumerlo alla Cisl. Si lavò in un ruscello, si mise l’abito buono e partimmo. Ricordo che mentre mio padre conferiva con Degasperi, sua moglie, la signora Francesca, mi offrì del succo di lampone. A colloquio finito, il presidente uscì dal suo studio e mi guardò. “Che cosa vuoi fare da grande?”. “Il giornalista!”».

È vero che una volta le telefonò Indro Montanelli?

«Voleva informazioni per un pezzo sul giudice Palermo, sostituto procuratore a Trento, indagava sul traffico di droga. Pensavo che fossero i colleghi che mi facevano uno scherzo. Stavo per mandarlo in mona!»

Chi è oggi il miglior giornalista trentino?

(Sardi ha un attimo di esitazione) «Sa che non saprei? Il fatto è che i giornalisti di una volta non esistono più. Il giornalista di una volta era conosciuto da tutti. Bravo a scrivere. Dotato di personalità. Capace di dare le notizie più eclatanti. Uno che viveva la città al punto da potersi permettere di entrare negli uffici del tribunale senza bussare. Oggi cos’è rimasto? Sono tutti laureati, parlano due o tre lingue, ma non hanno il mestiere in mano! Vanno intruppati alle conferenze stampa – che io chiamo “i dettati stampa” – e fanno delle domandine. Il più delle volte, diciamo la verità, delle domandine un po’ pietose…».

Continui.

«…del resto, oggi, sono spariti anche i partiti. Gianni Faustini aveva conosciuto a fondo la Democrazia Cristiana. Parlava a tu per tu con i grandi leader dell’epoca. Oggi se vai al Pd, con chi parli? Con la Maestri? E poi: esiste ancora il Pd?».

Di Ianeselli cosa pensa?

«Lo conosco abbastanza bene. È un sindacalista, come mio padre. Un’opinione politica non so darla. Diciamo che lo vedo abbastanza impegnato».

E di Fugatti?

(Sardi ha un altro attimo di esitazione) «Si trova a un bivio fondamentale per la storia del Trentino, siamo alle soglie di cambiamenti epocali. Chissà se sarà rieletto».

Sardi, che bilancio trae della propria vita?

«Ho vissuto pienamente. Ho attraversato un’epoca straordinaria, sia nelle difficoltà sia nelle conquiste. Nel lavoro ho incontrato tantissime soddisfazioni. Però…».

Però?

«Però… ecco, guardando crescere i miei nipoti, mi rendo conto che il mondo è cambiato. E, come negli anni della mia infanzia, siamo minacciati da una guerra folle, che non abbiamo saputo impedire. Mi spiace di non aver saputo lasciare ai miei nipoti una città più moderna. Un mondo più tranquillo e più ricco, in senso morale e materiale. Mi sento in colpa perché sono un giornalista. E lo tenga bene a mente: un giornalista, dal momento che si rivolge all’opinione pubblica, ha sempre una responsabilità».

 













Scuola & Ricerca

In primo piano