l'intervista

Veronica, a Rabbi la storia è viva con l’impegno  per il Molino Ruatti

Da studentessa a presidente: «I musei etnografici sono un patrimonio, ora sono riconosciuti, ma hanno bisogno di risorse»


Nadia Pedot


RABBI. Frazione Pracorno, Veronica Cicolini, classe 1985, è la Vicepresidente dell'Associazione di promozione sociale Mulino Ruatti che si occupa da oltre un decennio della gestione e della valorizzazione dei siti etnografici in Val di Rabbi e Val di Sole. Un progetto culturale che per Veronica si è trasformato in un investimento di vita a lungo termine.

Qual è la storia del mulino?

Il Molino Ruatti ha smesso di funzionare nel 1986, è stato l'ultimo in Val di Rabbi il che è identificativo di una valle che è rimasta legata a un'economia agrosilvopastorale più a lungo delle altre. Dalle foto è però evidente come l'edificio e la sua funzione più che decadenti fossero proprio decaduti. Nel 1989 è stato acquistato dalla Provincia autonoma di Trento e solo nel 2004 sono iniziate le opere di restauro conservativo.

Quanti mulini aveva la Val di Rabbi?

Nel Settecento erano addirittura 18. Dal 1200 i mulini hanno accompagnato la storia della valle, sono stati un pilastro tecnologico e culturale che ha permesso la sopravvivenza.

Com'è arrivata al Molino Ruatti?

Nel 2011, mentre stavo terminando il corso di laurea magistrale, si è aperta questa opportunità: la Provincia ha dato il mulino in gestione al Comune di Rabbi ma l'amministrazione – come spesso accade - al suo interno non aveva le risorse per dirigere il museo. L'assessore alla Cultura ha così convocato alcuni giovani (che tra loro non si conoscevano, ndr) della Val di Rabbi, allora studenti in Archeologia, in Scienze della formazione e in Storia, per proporre l'iniziativa.

L'avvio?

Concretamente non sapevamo da dove incominciare. Ci mancavano le competenze per la gestione finanziaria e la redazione di un bilancio, non sapevamo dove trovare i finanziamenti o come stipulare un contratto. Abbiamo unito le nostre risorse, ci siamo formati e abbiamo acquisito esperienza sul campo come operatori museali. Ci siamo costituiti in un'Associazione di promozione sociale, la forma che meglio riusciva a rispondere alle esigenze di un mulino-museo in termini di manutenzione, conservazione e valorizzazione dei documenti e degli oggetti materiali, ma anche di ricerca continua e mediazione culturale.

I primi anni?

Per larga parte di volontariato ma, grazie al “furore giovanile”, ogni sera ospitavamo un'iniziativa. Abbiamo organizzato concerti e cineforum, aperitivi o cene, laboratori di ogni genere, dormivamo con i bambini nei sacchi a pelo.

Vi siete laureati e cosa è cambiato?

Mi sono laureata in Storia presso l'Università degli Studi di Trento, specializzandomi in storia regionale con particolare riferimento all'Ottocento trentino, e nel frattempo l'Associazione si è strutturata: ci ha permesso di avere dei contratti di lavoro piuttosto continuativi e di porci in modo serio nei confronti di altri Comuni ed enti rispetto alla progettazione di servizi culturali. Nel corso degli anni siamo diventati un modello nella gestione dei beni etnografici.

Quanti soci siete?

Tre-quattro lavoratori, una ventina con i volontari.

Che tipo di esperienza offrite?

La visita al mulino permette di entrare nello spazio quotidiano di vita alpina. La sala di molitura è completa della sua tecnologia originale e i macchinari ad acqua sono ancora perfettamente funzionanti. Riusciamo a sviluppare un racconto sulla storia e la cultura alimentare del territorio, però il valore aggiunto è l'abitazione della famiglia che, a differenza di altri musei etnografici, mostra gli oggetti nel loro luogo d'uso originario: la relazione tra oggetti e tra oggetti e contesto traccia un legame empatico rispetto all'esposizione classica a parete o in bacheca. Gli oggetti qui parlano da soli.

Su cosa avete puntato?

Abbiamo investito molto sui laboratori didattici, concordati con scuole, dal nido alle superiori di tutta la Provincia, sulla formazione permanente e sulle mostre. Abbiamo sempre inteso il museo come una piazza: un museo etnografico è la casa di un territorio nella quale tutti trovano posto. L'etnografia è proprio questo: il luogo che spiega la storia, il paesaggio, l'economica, la cultura e l'anima di un territorio. Con successo da anni ci occupiamo a San Bernardo del dopo scuola dei ragazzi delle medie che vengono da tutta la valle.

Quanti sono i musei etnografici trentini?

I musei e i siti etnografici sono circa 120. Piccoli ed estremamente fragili.

Tutti di proprietà della Provincia?

Molti della Provincia, altri dei Comuni, altri ancora di privati e ciò corrisponde a storie e a livelli qualitativi di gestione molto differenziati. La mancata formalizzazione di una rete, che esprima un unico interlocutore, li rende deboli anche davanti al decisore politico: la varietà è la ricchezza del Trentino, l'estrema frammentazione è una debolezza.

Che impatto ha avuto la pandemia?

Dalla ripartenza abbiamo accolto molti più visitatori trentini, forse il Covid ci ha abituati a guardare ciò che abbiamo vicino. È cambiato anche il tipo di turismo, ci sono più famiglie con bambini. Abbiamo colto una grande richiesta di storia, una curiosità verso la profondità del tempo, il movimento dell'intelligenza, la varietà delle vite vissute. D'altra parte un museo è lo spazio dove si vive l'esperienza delle possibilità.

Dallo scorso 10 novembre «La Provincia riconosce, quali entità finalizzate alla salvaguardia delle tradizioni locali, i musei etnografici promossi dagli enti locali, da associazioni o da singoli cittadini». Cosa significa?

È un passaggio che abbiamo fortemente voluto. Io stessa e altri rappresentanti di piccoli e medi musei del Trentino abbiamo richiesto un'audizione presso la V Commissione permanente per sottoporre la nostra istanza: rispetto ad altri musei, che hanno una legittimazione e una lunga tradizione giuridica, gli etnografici non ce l'avevano. Esistevamo, ma non per la legge provinciale sulle attività culturali del 2007. L'emendamento, presentato dal consigliere Luca Zeni, è stato accolto all'unanimità e anche altre parti politiche hanno aggiunto miglioramenti. Abbiamo trovato degli interlocutori pragmatici, sensibili e molto attenti.

Il passo successivo?

Stabilire uno standard per il riconoscimento: quali requisiti deve avere un museo etnografico, come e quando è aperto, quanto è accessibile. Questo permette di alzare l'asticella dei servizi. Poi vorremmo portare avanti un progetto di rete per mettere a fattore comune i bisogni, le soluzioni e la promozione. Non è pensabile che un piccolo museo sia in grado di promuoversi autonomamente.

Cosa le ha dato e le continua a dare questo lavoro?

Dal 2011 è stato un percorso estremamente significativo di incontri e di progetti realizzati, si tratta di un lavoro di cooperazione per la costruzione di una visione. Questo progetto culturale ha offerto a me e ai miei colleghi l'opportunità di vivere dove siamo nati e di abitare anche in senso politico, cioè agendo senza rinunciare alle nostre ambizioni. E questo è straordinario.

 













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