Quando si sceglievano i mobili di notte
Paola Pasetto ricorda l’epoca d’oro del negozio, l’invenzione del letto alto un metro e mezzo e le luci delle vetrine dopo il film di mezzanotte
TRENTO. Paola Pasetto e il marito Franco avevano portato a Trento un inedito letto matrimoniale alto circa un metro e mezzo da terra, al quale si accedeva per mezzo di una scaletta: una soluzione che permetteva di utilizzare lo spazio sottostante come armadio. Fu un successo perché erano anni in cui la scelta immobiliare era quella di minori superfici per appartamenti più piccoli che obbligatoriamente dovevano essere funzionali. Così il mobilificio Pasetto si confermò all’avanguardia nelle proposte d’arredo per la città.
«La nostra clientela - ricorda Paola Pasetto - era per la maggior parte cittadina, anche perché il negozio lo abbiamo sempre avuto in zone centrali: all’apertura in via Belenzani, poi in Corso Buonarroti per un’attività nata a Trento a metà degli anni settanta e che si è conclusa nel 2015».
Da subito nel mondo del mobile? «No, prima ero contabile in un’agenzia di assicurazioni, poi ho conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito e l’ho seguito nell’attività di famiglia». Timori in questo passaggio da lavoro dipendente ad autonomo? «Il più grosso era dover lavorare con i miei suoceri, ma sono riuscita a mettere le cose in chiaro e non ci sono mai stati problemi».
La storia del Mobilificio Pasetto in realtà è molto più lunga e inizia a Morì nel 1935 aperto dalla signora Pasetto. Nel 1960 fu rilevato da Giuseppe Andrenazzi, padre di Franco, che lo trasferì a Trento. Dalla centralissima via Belenzani a Corso Buonarroti. «Cercavamo una sede centrale che però non fosse in una via troppo commerciale come era ed è tuttora via Brennero. Fu per questo che scegliemmo Corso Buonarroti, prima nel palazzo Itas, dove siamo rimasti per trent’anni e poi nella parte nord dove il nostro negozio era l’unico tra esercizi pubblici, banche e il Cinema Astra». Cosa ricorda di quel periodo? «Con tanta nostalgia le nostre vetrine illuminate ben oltre la mezzanotte: era un modo per intercettare chi usciva dall’ultimo spettacolo e si fermava a vedere le vetrine. Oggi le vetrine al buio degli esercizi commerciali mi fanno solo grande tristezza, ma sono la testimonianza di una realtà che non c’è più». In che senso? «Siamo passati dalla società delle certezze a quella del precariato. Allora entravano in mobilificio i figli accompagnati dai genitori che di fatto acquistavano i mobili per gli appartamenti che si andavano ad acquistare. Guai a parlare di finanziamenti, i clienti versavano una caparra e saldavano dopo il montaggio. Oggi si preferisce andare ad abitare in appartamenti ammobiliati con qualità minima; il finanziamento è diventato il primo passo verso l’acquisto e si paga tutto subito».
Un cliente entrava nel vostro negozio e ... «Prima di tutto la piantina dell’appartamento sulla quale si realizzava un disegno che rispecchiava i suoi desideri, a seguire la nostra proposta ed alla fine la decisione che molto spesso non era quella iniziale». La decisione di chiudere da cosa è nata? «Per andare avanti avremmo dovuto abbassare troppo il livello della qualità delle nostre proposte: ci saremmo dovuti snaturare, da qui la decisione di chiudere. Pensi che mio marito seguiva i nostri operai nelle fasi di montaggio ed il fatto che fossero nostri dipendenti era una precisa richiesta dei clienti. Altro che il lavoro esternalizzato di oggi che ti porta in casa chissà chi».
Del rapporto con i clienti cosa ricorda? «Il rapporto personale. Era come se ogni volta dovessi arredare casa mia. Il nostro punto di forza erano le camerette per i ragazzi. Collaboravamo con un’azienda della Brianza estremamente duttile nelle proposte. Si vendeva grazie al passaparola tra i ragazzi». Come sono cambiate le proposte negli anni? «All’inizio nella richiesta prevaleva il legno, poi sostituito da altri materiali perché la tendenza era quella per i colori chiari. Se siamo stati dei precursori con i letti matrimoniali alti, lo siamo stati anche nelle basi della cucina: le proponevamo da 90 centimetri d’altezza rispetto ai normali 80: un cambiamento che rispecchiava la tendenza alla maggior altezza degli italiani». La vostra svendita per trasferimento fece clamore. «Ci affidammo a una ditta specializzata veneta. Per Trento erano le prime vetrine coperte dai manifesti, i primi camion pubblicitari e fu un successo: ci rimase solo una cucina. Prima però avevamo inviato una lettera ai nostri clienti con una sorta di diritto di prelazione, arrivarono in massa. A servire eravamo in sette, non ci aspettavamo di essere presi d’assalto». Era la Trento del commercio di famiglia, era la Trento di Sani, Cronst e anche del Cinema Astra. «Una città che purtroppo non c’è più. Vive nelle chiacchierate con i nostri clienti quando ci incontriamo. Ma non ci sono nemmeno più le abitudini, la pretesa della qualità. Una volta il cliente decideva, oggi accetta tutto. Cambiamenti che non ci fanno rimpiangere di aver chiuso. Ci fa piacere aver lavorato in un ottimo periodo, ma probabilmente anche noi eravamo un'espressione di quel tempo».
Oggi Paola Pasetto cosa fa? «Prima di tutto la camperista. Non più un paio di settimane di vacanza con la testa rivolta al lavoro, ma un paio di mesi e poi tanti viaggi. Poi creo gioielli tessili. Durante il lockdown non solo eravamo chiusi in casa, ma il nostro palazzo era avvolto dall’impalcatura per i lavori di ristrutturazione. Così ho iniziato a seguire dei corsi online, poi l’insegnante ha aperto un’accademia che oggi ha 200 iscritti in Italia e ho perfezionato il mio hobby. Le mie creazioni piacciono molto alle mie amiche».