«Io, medico con il Covid e la paura di morire» 

La storia. Graziano Villotti, medico di base in val di Cembra, è stato contagiato lo scorso maggio È stato curato dal collega di valle. E dai compaesani, che lo hanno affidato alla Madonna dell’Aiuto


Alberto Folgheraiter


Trento . Per buona sorte ce l’ha fatta e, adesso che è passata, può davvero tirare un sospiro di sollievo. Ma nei giorni condivisi con il coronavirus, anche un piccolo respiro risultava faticoso come per chi scala un ottomila. «Tutto è cominciato ai primi di maggio con un malessere generale, fino a quando è scoppiata la febbre: 39,5 gradi. Ho trascorso una notte agitata. In poche ore il sospetto di Covid si è trasformato in conferma».

Graziano Villotti è un medico della val di Cembra. Un sanitario di lungo corso, essendosi laureato nel 1978. Nato a Segonzano nel 1952, vive a Sover con la famiglia (la moglie Anna e tre figli) e svolge servizio a Cembra-Lisignago e Altavalle (Faver, Valda, Grumes e Grauno). Da molti anni fa anche il direttore sanitario dell’associazione di volontariato “Stella Bianca” della val di Cembra.

Lo ha salvato la sua fibra, certo, ma anche il suo curante, il dottor Maurizio Virdia, medico di famiglia sulla sponda sinistra della val di Cembra, sanitario di poche parole ma di grande perizia. Insomma, l’uomo giusto al posto giusto il quale, quando si è trovato di fronte il collega con la febbre alta e i sintomi del Covid-19 non ha esitato un momento a somministragli i presidi sanitari già testati. Anche la data del contagio ha avuto un qualche ruolo nell’esito favorevole. Nel senso che a maggio, dopo due mesi di pandemia, si erano sperimentati alcuni farmaci la cui combinazione dava qualche garanzia di successo.

Dottor Villotti, che esperienza è stata? «Debbo dire che si sta veramente male, con la percezione di avere addosso un macigno e la consapevolezza di non essere in grado di sostenerlo. Le ossa rotte, dolore muscolare diffuso. Fin dal primo giorno sono stato messo in terapia, con tachipirina, eparina e il Plaquenil, quel farmaco per l’artrite reumatoide che ha funzionato in numerosi casi, compreso il mio, contro l’infezione. Poi credo mi abbia aiutato molto un’alimentazione leggera e il bere molto».

Mentre stava male ha mai pensato che avrebbe potuto fare la fine di numerosi altri suoi colleghi?«Si che l’ho pensato. Sono stato seguito in modo molto stretto dal mio medico curante. Temevo che mi mandasse in ospedale. E lì l’evoluzione poteva arrivare a un punto di non ritorno. Questa insicurezza mi ha attanagliato nei primi giorni, quando ho avvertito in pieno l’aggressione del virus. Dopo mi sono tranquillizzato e mi sono detto: forse ce la faccio».

Benché isolato e con la famiglia in quarantena, il medico aveva ben presente la dimensione della pandemia e la strage che si stava consumando anche tra i suoi colleghi: 171 medici morti a causa dell’infezione contratta mentre erano impegnati a contrastarla: in corsia o negli ambulatori sul territorio. Tra di loro la dott. Gaetana Trimarchi, di 57 anni, medico di “continuità assistenziale” (medico di guardia) in val di Fassa, scomparsa il 30 marzo 2020.

Pur con due vittime a causa del Covid-19 e qualche decina di contagi, fino a quel momento la val di Cembra si era rivelata un’isola nel dilagare del virus a macchia di leopardo. Tanto che gli ospiti della Residenza sanitaria assistenziale, la casa di riposo di Lisignago, opportunamente “blindati”, sono rimasti immuni. Forse è anche questa la ragione per la quale, ai primi sintomi, il medico Villotti ha continuato a negare a sé stesso la possibilità di essere stato contagiato.

Quanto è durata la paura di morire? «I primi tre giorni». Che cosa passa per la mente di un medico quando si trova dall’altra parte della barricata? «Cominci a percepire la tua fragilità. Si sgretola una sensazione di invulnerabilità. Fino a questa esperienza ho avuto la fortuna di non essere aggredito da malattie o di subire traumi. E a quel punto ti pare di essere più forte degli altri, invece non è vero. Quando sono stato colpito dal Coronavirus mi sono chiesto: perché a me? La risposta è molto semplice: perché a me, no? Poi ti rendi conto che stai entrando in quella fascia di età, i settant’anni, con la quale cominciano i distinguo anche per le terapie. Quando cioè, in mancanza di posti letto in rianimazione, qualcuno potrebbe fare la scelta di privilegiare i più giovani».

In quei giorni è mai stato assalito dal dubbio sulla scelta di fare il medico? «Mai, nemmeno sul sistema di protezione che ci aveva fornito l’Azienda sanitaria. Le prime settimane molti di noi hanno preso l’infezione sottogamba. Ci dicevamo: ma sì, è ancora in Cina. L’ho vista avvicinarsi quando c’è stato un primo caso in val di Cembra, con una persona anziana risultata infetta e poi quando si è dovuto mettere in quarantena un volontario dell’associazione di pronto intervento “Stella Bianca”. Altri due casi hanno interessato miei assistiti. Dove e da chi ho preso l’infezione francamente non lo so, perché mi sono passate davanti molte persone, anche asintomatiche». Insomma non ha individuato chi le ha trasmesso il virus? «Avevo il sospetto di un contatto con una persona. Ripensandoci, tuttavia, ho dei dubbi. Comunque, sono certo che si è trattato di un paziente».

Dopo due mesi, come sta? «Mi sento abbastanza bene ma sento anche che sono cambiato. È aumentata l’attenzione su ciò che mangio, all’attività fisica, a quella professionale. La sera avverto di più la fatica. Ho ridotto molti impegni di lavoro, misuro le forze. Credo di essermi ammalato anche perché il mio sistema immunitario era diventato più fragile proprio per le mille attività che si accavallavano. A livello professionale il Covid-19 ha aiutato, perché dal medico adesso si va solo per le urgenze vere. E questo ha fatto una selezione pure nei nostri ambulatori. In tal modo si possono gestire i pazienti con maggiore tranquillità».

Lui non lo sa, ma quando nella valle si è diffusa la notizia che “il Graziano” stava lottando contro il Covid-19, sulla balaustra del santuario valligiano della Madonna dell’Aiuto, a Segonzano, sono comparsi numerosi lumini. Anonimi, come la devozione. Certo, la medicina; naturalmente le cure giuste e tutto il resto. Ma l’affetto dei suoi pazienti e dei compaesani può aver giocato un ruolo.

Fino a quando resterà in servizio, dottore? «Finché la legge mi consente di praticarlo, non smetto. Fino al compimento dei 70 anni, perché questo lavoro mi piace». Applausi, non formali.















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