la causa

Gli si rompe la protesi e deve pure pagare

Aveva chiesto di essere risarcito dai medici ma per il giudice (e il perito) l’operazione era stata perfetta. Ed è stato condannato a coprire le spese legali



TRENTO. Per due anni non aveva avuto problemi: l’operazione era andata benissimo e la protesi che aveva sostituito la sua anca funzionava egregiamente. Poi il patatrac. Un giorno, mentre si trovava in un cantiere, la protesi aveva improvvisamente ceduto, facendolo cadere a terra. La conseguenza? Nuovo intervento, nuova protesi e nuova riabilitazione. E anche una causa contro i medici che aveva eseguito il primo intervento con una richiesta di risarcimento da 110 mila euro. Ma sia in primo grado che in appello all’uomo è andata male: l’operazione era stata eseguita in maniera encomiabile e quindi i giudici non solo hanno detto «no» alla richiesta di risarcimento, ma lo hanno pure condannato al pagamento delle spese legali. Che al momento (la vicenda è in Cassazione) ammontano a circa 50 mila euro. E questo perché, probabilmente, nel chiamare in causa di responsabili di quello che era successo, aveva sbagliato mira: non aveva interpellato, infatti la società produttrice della protesi che si era rotta.

Ma facciamo un passo indietro per raccontare questa vicenda giudiziaria. E partiamo dal 2007 quando l’uomo, un imprenditore lombardo, si rivolge al San Camillo per un problema all’anca. Viene operato e gli viene installata una protesi. Tutto procede al meglio fino al 2009 quando improvvisamente la protesi cede. C’è quindi una nuova operazione e quindi la chiamata in giudizio da parte dell’imprenditore dell’ospedale dove era stata operato la prima volta (è il San Camillo) e dei medici che avevano fatto l’intervento. La causa arriva davanti al giudice Giuliani e c’è, da parte dell’ospedale, la chiamata in garanzia della società che aveva prodotto la protesi e questa a sua volta ha chiamato a presentarsi anche l’assicurazione (difesa dall’avvocato Cristanelli). Viene ordinata una perizia che viene affidata al dottor Cembrani. E la sua relazione è considerata dirimente per il giudice: l’operazione è stata eseguita in maniera ottimale e quindi non si ravvede nessuna responsabilità da parte dei dottori che erano in sala operatoria quel giorno nè tanto meno dell’ospedale. Insomma sull’intervento non c’era nessun rilievo da fare. E sulla protesi in sè non c’è stato alcun pronunciamento perché La società che l’aveva prodotta non era stata chiamata in causa dall’imprenditore. Che decide di portare il suo caso anche in appello, ma il finale è sempre lo stesso. Nessun rilievo da fare su quanto avvenuto durante l’operazione e nel periodo di degenza al San Camillo. E quindi nuovamente la richiesta di risarcimento del danno biologico del lucro cessante (che, lo ricordiamo, era stata quantificata in 110 mila euro) non è stata accolta. L’imprenditore è stato invece condannato a pagare le spese legali (gli sono state compensate quelle riguardanti la società e l’assicurazione) quantificate in 50 mila euro. E ora il caso è in Cassazione.

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