il personaggio

Fiammetta Nebl e l’arte orafa. Ma da ribelle e minimalista

Prima gli studi mediorientali, poi la scoperta della vocazione artistica: «Sogno un laboratorio tutto mio»


Daniele Peretti


CLES. Ma se senti qualcosa dentro che ti chiede «perché lavori per gli artisti quando sei tu un’artista» cosa fai?

Segui l’istinto oppure la laurea in Studi Mediorientali con indirizzo Lingue, Culture e Società dell’Asia e dell’Africa mediterranea?

La scelta di Fiammetta Nebl è stata quella di lasciare gli studi e tuffarsi in un’altra vita. Possiamo aggiungere anche un diploma al Liceo Linguistico col quarto anno trascorso a Bruxelles, una conoscenza a livello scolastico di arabo e turco, ma nonostante tutto... «Ho deciso di cambiare perché quel corso di studi non mi convinceva come sviluppo lavorativo. I miei amici che lo avevano concluso, avevano trovato lavoro o nelle Ong o in settori che non mi interessavano. Quella voce che mi chiamava dal profondo l’ho sentita durante il servizio civile che avevo fatto al Festival Oriente Occidente. Dovevo gestire gli artisti, acquistare i loro biglietti aerei e pianificare il loro soggiorno ed è stato allora che ho deciso di seguire la mia vena artistica».

Ma non è stata una scelta facile perché suo nonno era Silvano Nebl, quotato pittore neo divisionista molto noto in Val di Non, scomparso nel 1991.

Seguire quella strada aveva un lato positivo che era quello che in tutta la famiglia c’è una vena artistica e l’arte in senso lato è di casa. Quello negativo era invece il confronto con le aspettative che la nipote di Silvano Nebl non poteva deludere qualora avesse scelto l’arte come professione. Purtroppo non ho potuto conoscere mio nonno perché lui è morto nel 1991 ed io sono nata quattro anni dopo, quindi avevo ben poco di diretto a cui potermi ispirare.

Fiammetta decide allora non solo di seguire dei corsi, ma di iscriversi all’Università d’Arte in Inghilterra.

Purtroppo il mio trasferimento è coinciso col Covid, le lezioni erano solo online e sinceramente mi sono stufata. Tornata a casa ho cominciato a scendere nel laboratorio odontotecnico di mio papà dove ho cominciato praticamente da autodidatta a provare a realizzare qualcosa col materiale che utilizzava mio padre. Ho realizzato il mio primo anello praticamente importabile, ma che piaceva a tutti e allora ho deciso.

L’autodidatta andava formata.

E così è stato. Sono andata a Milano per frequentare la “About Fucina Orafa” dove ti insegnano a realizzare dei gioielli artigianali e personalizzati. Uno spazio di coworking orafo tutto al femminile ed è stata l’esperienza decisiva.

Come realizza i suoi gioielli?

Parto dal bozzetto con i quali ho riempito un quaderno, ma siccome sono una ribelle poi faccio di testa mia. Lavoro pepite di argento e rame che fondo per ottenere una lega 9,5% che poi modello.

Della lavorazione qual è la fase che più le piace?

La fusione perché ha un importante valore simbolico: si distrugge e poi si rinasce.

Progetti?

Il primo è certamente quello di riuscire ad avere un laboratorio tutto mio. Adesso parte del lavoro lo faccio in quello di mio papà e parte a casa. In divenire c’è la lavorazione dell’oro e un sito che devo fare perché anche se mi piace il contatto diretto con le persone, resta sempre un bel biglietto da visita.

La realizzazione che le è piaciuta di più?

Un lavoro su commissione: un paio di orecchini da regalare ad un’architetta. Ho fatto due finestre nello stesso stile di quelle delle chiese che si aprono sul mondo: in una c’era un occhio e nell’altra una pianta.

L’occhio però non ha un effetto molto tranquillizzante.

Mi affascina la sua valenza magica. La magia è la nuova strada artistica che sto iniziando a percorrere. Dipingo con molta attenzione alla natura, ma nei miei quadri almeno un occhio c’è sempre.

In cosa potrebbe assomigliare a suo nonno?

Nella duttilità artistica. Oltre a quello che ho detto, faccio anche danza. A livello di pittura mi esprimo meglio in uno stile figurativo, mentre il nonno rappresentava la natura nei suoi vari aspetti. Una cosa che mi piacerebbe riuscire a fare è ottenere la stessa vivacità dei colori che riusciva a realizzare il nonno.

Alla sua attività ha dato il nome Atelier Aloè: che senso ha?

Aloè alla francese. Il motivo? Da piccola chiamavo tutto aloe. Avrei dato quel nome a mia sorella, al gatto, ma nessuno mi ha mai preso in considerazione. Così quando ho avuto una cosa tutta mia che mi doveva rappresentare, ho scelto quel nome che mi piaceva.

I suoi gioielli hanno un qualcosa che contraddistingue il suo lavoro?

In senso assoluto no. Ogni artigiano artista ha la sua mano e le opere sono una diversa dall’altra. Forse potrebbe essere individuabile la mia linea minimalista geometrica estremamente semplice ed essenziale. L’altra è quella magica che ho iniziato da poco.

Vendite online?

Se posso le evito. Qualcosa faccio con Instagram, che però mi piace poco. Non accetto quell’algoritmo che regola le tue uscite in base alla frequenza con la quale posti. Preferisco in assoluto il contatto con le persone anche perché mi piace raccontare la storia che c’è dietro ai miei gioielli. Ecco un altro progetto.

Ci dica.

Vorrei arrivare all’acquisto di metalli dei quali si conosca la provenienza. Ho già dei contatti e spero di riuscirci a breve. Questa sarebbe un’altra storia da raccontare ai clienti che così saprebbero non solo da chi, ma anche da dove arriva il gioiello che hanno acquistato.


 

















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