Fare il sindaco? No, grazie Nei Comuni torna il “podestà”
Il Caso della settimana. Alle ultime elezioni in ben 56 municipi (un terzo del totale) si è presentato un solo candidato: nel 2015 furono 38. Colpa della legge elettorale che cancella l’opposizione, ma anche delle troppe responsabilità
Trento. Ma cosa succede ai Comuni trentini? Concentrati a raccontare conferme e rivoluzioni nei municipi maggiori, abbiamo forse sottovalutato un aspetto non secondario messo in evidenza dall’ultima tornata elettorale: in 56 comuni su un totale di 156 (quindi un terzo) il sindaco ha vinto senza neanche scendere in campo. Vale a dire che in 56 comuni si è presentato un solo candidato che, per brindare all’elezione, ha dovuto semplicemente attendere il raggiungimento del quorum perché dall’altra parte non aveva avversari: 100% di preferenze.
È vero, si tratta di Comuni piccoli, sotto i 3000 abitanti, quelli dove la legge elettorale non prevede il doppio turno e dove vince chi ottiene un voto in più dello sfidante. Ma quando lo sfidante non c’è in così tanti territori, ecco, questo non può che indurre ad una riflessione sul grado di partecipazione democratica che esiste oggi in Trentino.
Un po’ di numeri
In occasione della scorsa tornata elettorale, i Comuni “monocandidato” erano stati 38, quindi questo trend preoccupante è in aumento. E se è vero che ben 6700 persone, il 20 e il 21 settembre scorsi, ci hanno messo la faccia per un posto in consiglio, è altrettanto vero che oltre 1500 di questi candidati sono scesi in campo nei comuni maggiori e che l’assenza di liste concorrenti a quelle vittoriose nei 56 municipi a candidato unico ha fatto mancare la partecipazione di poco meno di un altro migliaio di persone.
La legge elettorale
Di chi è la colpa? Della legge elettorale? La controprova, naturalmente, non esiste. Certo, l’attuale legge elettorale non spinge ad una massiccia partecipazione, in particolare nei comuni più piccoli. L’assenza di ballottaggio e il premio di maggioranza al candidato sindaco eletto (che andrà a controllare i due terzi del consiglio comunale) non agevolano la naturale attività di “stimolo” e controllo della minoranza. Il rischio - concreto - è che nei piccoli territori, a comandare, restino sempre le stesse persone, dei “podestà” dei giorni nostri, che controllano i paese, fanno (magari benissimo) gli amministratori ma finiscono per perdere l’abitudine al confronto politico, al dialogo, alla mediazione e magari ai passi indietro. Tutti concetti che sono connaturati all’idea di Autonomia che non vuol dire “fare quello che si vuole”, ma autogovernarsi dentro un quadro di confronto democratico. E tutto questo ci deve risuonare nelle orecchie a maggior ragione in questi giorni, leggendo le cronache che ci parlano di piccoli centri del Trentino dove la criminalità organizzata si è infiltrata sfruttando la confidenza con gli amministratori e dove, evidentemente, è mancata la più elementare forma di controllo su chi era chiamato alla gestione del potere.
La “burocrazia difensiva”
L’elezione diretta del sindaco ha rimesso molte competenze dal consiglio comunale nelle mani del primo cittadino. Il risultato di questa spinta alla semplificazione è stata una gestione del potere amministrativo che si è spostato dall’aula consigliare (con le lentezze che ciò produceva, ma anche con l’ampio confronto tra maggioranza e opposizione che ne derivava) direttamente in capo alla giunta, al sindaco e ancor più alla burocrazia comunale. La quale, però, per non incorrere nei controlli della Corte dei conti, in sanzioni o denunce dei cittadini chiede regole, regole e ancora regole. Qualcuno la chiama “burocrazia difensiva” e il risultato è un rallentamento dell’attività amministrativa, la difficoltà a realizzare il programma e, più in generale, il graduale venir meno di quella “spinta civica” ad occuparsi della cosa pubblica, soprattutto nei piccoli comuni dove le “rogne” sono (quasi) tutte sulle spalle del primo cittadino. Risultato: meno voglia di mettersi in gioco, oltretutto sapendo già che - se perdi - il tuo peso di minoranza in consiglio sarà pari allo zero.
La crisi della politica
C’è, però, un’altra ragione - assai più profonda e allarmante - che spiega questa disaffezione all’impegno in politica. Ed è, appunto, la crisi stessa della politica intesa come confronto di idee diverse, dialogo (a volte anche aspro) tra posizioni distinte alla ricerca di una mediazione possibile. Lo spazio politico di approfondimento è ridotto al minimo, le sedute dei consigli comunali sono sempre meno frequenti e il sindaco dei piccoli comuni diventa più un “funzionario” che non il “propositore” di un’idea di comunità.
Anche il Consiglio delle autonomie ha ridotto sensibilmente le proprie rivendicazioni “politiche” rispetto alla Provincia, le richieste di spazi di manovra finanziaria sono sempre meno forti e si assiste più ad un ripetitivo lavoro di ratifica di delibere provinciali che non al reale confronto (paritario) tra livello comunale e livello provinciale. Se a questo aggiungiamo la crisi dei partiti che hanno funzionato negli anni da collante e riferimento anche per i piccoli amministratori, non possiamo stupirci se in un terzo dei municipi trentini non si sia stati in grado di trovare due candidati sindaco che si sfidassero.
Forse è il segno dei tempi di “decadenza” della politica, ma una terra, come il Trentino, che crede ancora nel governo dei territori non può sottovalutare questi segnali.