Colombini, quando il porfido diventa arte

Lo scultore trentino dà vita e colore alle lastre estratte dalle cave
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Giorgio Dal Bosco


TRENTO. Lui, Paolo Colombini di Fornace, terra del porfido trentino, pietra definita con enfasi anche "oro rosso", lui figlio di questa pietra che remunera ma che non ti risparmia(va) la salute. Lui che ha evitato la silicosi e la sordità al suo fisico massiccio, lui con gli occhi azzurri e i capelli bianchi che testimoniano qualche anno meno dei suoi 60, lui trenta anni fa faceva il macchinista dei treni: è andato su e giù dal Brennero a Verona per dieci anni, dal 1970 al 1980.

Davanti ai suoi occhi scorrevano vorticosamente le traversine dei binari e i vari segnali luminosi lungo le massicciate. E assieme a queste quotidiane immagini, vorticosa e sconsolante, gli scorreva nella mente anche la malinconia per questo lavoro che non gli piaceva.

Fermo alle stazioni, in attesa del lacerante fischio del capostazione per la ripartenza del convoglio, tra le nebbie novembrine e nei buchi neri delle gallerie in Alto Adige gli apparivano e sparivano immagini del suo territorio, delle rocce, dei sassi dell'Avisio. Erano foto mentali di una realtà che sentiva - e lo avvertiva intensamente - stava coprendo e mascherando un'altra realtà, quella millenaria, storica, una realtà di milioni di anni fa che il tempo con il vento, con la pioggia, con i ghiacciai e i terremoti, con il rapido fluire dei torrenti aveva trasformato. Dentro quelle pietre ci doveva essere un'anima o, come scrisse qualcuno, "le pietre respirano, ma noi non riusciamo a percepirlo perché le nostre vite sono troppo brevi."

Paolo è sceso dal treno per l'ultima volta nel 1980 ed è salito su un altro treno, stavolta immaginario e ambizioso, un treno che porta, ma ne porta solo pochi, alla meta ambita: l'arte, l'esteriorizzazione plastica dei propri sentimenti, l'ambizione, la voglia di essere ascoltatore, interprete, affabulatore e ricreatore della natura, delle sue espressioni e quelle del proprio animo.

E' andato a lavorare con il fratello Gino, già da tempo immerso nel porfido, ma di quel porfido che dà subito guadagno. Con lui ha creato un'azienda, ma le lastre gli parlavano d'altro. Gli parlavano di sé stesse, della loro vita, non della loro "miserevole" funzione di piastrellare strade o fontane o piazzali, oppure zoccoli di edifici. Per la verità, quelle lastre strappate alle montagne con orribili squarci della dinamite e con il sudore delle fatiche, davano da mangiare a lui e a molti altri. Per lunghi anni quelle cave sono state il nido di morti lenti, precoci, di morti annunciate, quelle medesime morti dei padri e dei fratelli, morti per asfissia nei decenni passati e ancora più indietro nel tempo.

Nel 1995 Paolo, con il beneplacito del fratello Gino, ha detto basta agli sconquassi del tritolo e il porfido, anziché cubettarlo, pesarlo e venderlo, lo ha abbracciato e accarezzato. Qui e lì lo ha tagliato con un colpo netto a metà cercandovi dentro la sua verità e dipingendola monocromaticamente. Come un cercatore d'oro di nordamericana memoria che va nei ruscelli a setacciare l'acqua per cercare quella preziosa polvere, così Paolo è andato per molti anni nell'Avisio, anziché con un setaccio, con un muletto a "rubare" i sassi che, dismessi dal Lagorai come fossero sue cellule morte, più lo ispiravano, meglio sapevano raccontargli la storia delle ere glaciali. Ha portato e ha fatto rotolare nel cortile dell'azienda 150 tonnellate di massi. Dal 1995 (e lo fa tuttora), vi ha passeggiato in mezzo come un fioraio passeggia tra le sue aiuole rimirando i fiori, Lo fa da quando decise che la pietra, la "sua" pietra non poteva e doveva essere avvilita sotto solo calpestio della gente, ma che doveva essere oggetto degli occhi della gente, non dei piedi.

Ed ecco che la tragedia dei militari italiani a Nassyria ha dato il là alla sua verve artistica con il monumento in via Brennero a Trento. E' facile il connubio tra la pietra, come elemento eterno, e l'amore per la propria nazione. E' perfino trasparente la metafora di quei sassi squarciati e rotolati che simboleggiano sia la caduta dei soldati sia il dovere civile dell'eterno ricordo per coloro che sono caduti in guerra.

Molto meno impegnativa ma con un grande riscontro l'opera ciclica sulla pista ciclabile a Rovereto o le tre opere permanenti a Venezia. O, ancora, l'ultimo suo lavoro, anch'esso con un sapore metaforico della fontana davanti alle nuove carceri a Trento Nord. Questa primavera a Londra, ad una fiera, il suo stand è stato molto apprezzato tanto da indurre l'Accademia d'arte di Shangai a volerlo ospite entro l'anno.
Paolo non modella un bel nulla. Taglia in verticale il masso, ma è come se lo dividesse in cento elementi anche se le due parti ancora si "baciano" e si staccano con la forza del colore.













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