Quando Piazza Matteotti era un “paese dentro la città” 

Al posto dei bunker c’erano i banchetti. Personaggi, riti, addirittura un dialetto: più che interventi architettonici, sarebbero necessari quelli  di ricostruzione del tessuto sociale scomparso negli ultimi decenni  


MAURIZIO DI GIANGIACOMO


BOLZANO. Quando li ho visti, i bunker, in effetti m’hanno messo un po’ di tristezza, in buona parte mitigata dall’impressione decisamente migliore che mi ha destato il ridimensionamento della sede stradale e la creazione di qualcosa che assomiglia ad una ciclabile. Il problema è che in piazza Matteotti ci sono nato, cresciuto e vissuto per quasi quarant’anni – che di per sé è già una bella sfortuna – e dentro di me conservo e alimento una convinzione. Che poi è una constatazione, poco più che una didascalia, volendo semplificare. Il declino di piazza Matteotti – per decenni un paese dentro la città, con i suoi personaggi, i suoi riti, addirittura il suo dialetto – è cominciato da quando da piazza Matteotti è stato tolto il parcheggio. È dura da ammettere, per chi ha anche solo la parvenza di un’idea ambientalista-ecologista, ma è la realtà: citofonate alle decine di esercenti che hanno dovuto chiudere un esercizio in piazza Matteotti, via Torino o via Milano, negli ultimi anni, per averne conferma. Sì, certo, molto hanno fatto i centri commerciali, che sono stati il colpo di grazia.

I banchetti ed il parcheggio

Tanto, però, aveva già influito la trasformazione della vecchia piazza con le sue “belle” decine di parcheggi a spina di pesce e i suoi caratteristici banchetti - quarant’anni fa vi si vendevano ancora frutta e verdura, uova e polli, formaggi e salumi e anche il pesce! - nella spianata assolata e desolata degli ultimi decenni. Inaugurata quella, è iniziata la moria dei negozi. Parallelamente, era cominciata anche la trasformazione “antropologica” del paese nella città: assieme ai negozi, sono spariti i personaggi, i riti e anche il dialetto (lo slang di Bolzano, come lo chiama l’amico Paolo Cagnan, mezzo “shanghaiolo” anche lui). Negli ultimi anni sono decine e decine i protagonisti degli “anni ruggenti” di piazza Matteotti passati a miglior vita; anziani arrivati dal Polesine, da altre province del Veneto, dal Mantovano o dal Meridione, “senatori” delle case Ipes che a Bolzano, in tanti casi, erano riusciti a garantire un futuro decisamente migliore del loro ai propri figli. Quelli hanno comprato casa altrove, nel “Bronx” - o ai confini del Bronx, a giudicare dalla linea apparsa trentacinque o quarant’anni fa sul selciato, di fronte alla sede dell’allora Ipea – ci sono rimasti i “veci” che, fra un “gotto” e l’altro hanno tenuto botta ancora per decenni.

Personaggi indimenticabili

Personaggi che costituivano il “paesaggio sociale” di piazza Matteotti, come Venanzio “Ancio” Bertin (lo storico titolare del Bar Romagnolo) e il suo leggendario cliente Bepi Troia, o Gualtiero Manzana (che ha gestito per decenni, assieme al fratello, l’edicola di piazza della Mostra ma di piazza Matteotti incarnava lo spirito più autentico) e ancora Francesco (titolare di uno dei banchetti ma quasi più noto per l’attività di fisioterapista ante litteram), Luli con le caldarroste e gli alberi di Natale e la Maria del vino, spariti e sostituiti nella maggior parte dei casi – in termini di presenza abitativa - da immigrati: gente onesta, che lavora e mette a sua volta su famiglia; ma integrarsi è un’altra cosa e il deficit di socialità è finito sul conto della vitalità del “paese”.

“Cronache” dalla piazza

Svuotata dagli urbanisti e dalla crisi economica, impoverita socialmente da un’immigrazione gestita male, piazza Matteotti è così quasi irriconoscibile agli occhi di chi ricorda le “cronache” di quel paese nella città: quella volta che una famiglia ci piantò una tenda per protestare contro l’Istituto per l’edilizia abitativa agevolata che le negava un appartamento; quell’altra che i più scalmanati della compagnia finirono prima all’ospedale e poi in tribunale e sul giornale perché un inquilino del civico 1, esasperato dal loro scorrazzare sulle vespette, gli sparò dal balcone. E quell’ultimo dell’anno che Fabio G. arrivò con un cartoccio assicurando che si trattava di una bomba e che alla mezzanotte l’avrebbe fatta esplodere? Eh, gli episodi sarebbero decine, alcuni raccontabili (le giornate senz’auto organizzate per lasciare che noi ragazzi potessimo giocare a pallone in piazza), tanti altri meno (come quella volta che i più facinorosi, prima di una vacanza, uscirono da un grande magazzino con una canoa senza pagarla e poi tornarono dentro perché avevano dimenticato i remi), robe da piazza Matteotti.

Personaggi, riti (e anche quel “dialetto”) che difficilmente torneranno. Il “paese nella città”, per rivivere gli antichi splendori, avrebbe bisogno di un’operazione architettonica, sì, ma di architettura sociale, per ricreare il tessuto che i fenomeni che ho già citato – e adesso metteteci anche questo maledetto Covid-19 - ha lacerato. I “bunker”, la ciclabile e la nuova pavimentazione non bastano.

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