Il voto dice che l'anomalia trentina è finita. E l'Alto Adige si allontana



Ciao Lorenzo. Ciao Tiziano. Ciao Franco. Ciao Michele. Ciao Patt. Ciao Pd. Ciao Upt. Ciao centrosinistra autonomista. Ciao anomalia trentina. Ciao idea degasperiana di una regione di confine, autonoma, intrisa di convivenza, di cooperazione, di solidarietà.

In un colpo solo gli elettori hanno azzerato una Dc che  in Trentino, al di là delle denominazioni di rigine più o meno controllata, non era mai davvero finita: Dellai e Mellarini, sconfitti sonoramente, sono infatti sempre stati fieri delle loro origini. Non contenti, i cittadini hanno mandato a casa l’appena eletto presidente del consiglio d’Europa, Nicoletti, e colpito - a morte? - col bazooka del voto il partito autonomista di Panizza e di Rossi, governatore che è con Dellai, Renzi e la “nuova sinistra” fra i grandi sconfitti di queste elezioni che fino all’ultimo ha pensato di dominare (e domare). La corsa per la riconferma, a ottobre, per lui, ora sarà meno scontata. 

La roccaforte trentina non c’è più. Resiste solo l’ Alto Adige, territorio impermeabile agli urti che può permettersi persino di eleggere Maria Elena Boschi come se niente fosse. 

Da una parte, in Alto Adige, c’è un filo che lega la politica, il territorio, i cittadini. Un patto indissolubile. Fatto di autonomia intesa come patrimonio condiviso e intoccabile.

Dall’altra parte, il Trentino, è un territorio sempre più italiano. Una periferia del Veneto o della Lombardia, se si va a guardare come s’è distribuito il voto: la Lega che vola, mettendo la felpa verde a tutto il centrodestra; il Movimento cinque stelle che corre; il centrosinistra autonomista che precipita malgrado (o forse proprio per questo) sia stato al governo provinciale praticamente da sempre.

In Trentino i fenomeni nazionali attecchiscono da tempo. L’autonomia non è sentita come patrimonio collettivo da difendere. Non c’è un villaggio indiano o gallico che resiste alle avanzate di Cesare. C’è un elettorato che si consegna a Cesare di volta in volta, cambiando spesso idea e tendendo a premiare sempre chi sta all’opposizione. E l’elettorato, sia chiaro, ha sempre ragione. Perché la sovranità popolare è l’anima della democrazia.

Per tornare a una trionfale vittoria o a una incredibile catastrofe del genere (le cose si possono sempre vedere da almeno due punti di vista) bisogna fare un salto indietro di 24 anni: quel che è successo domenica s’era infatti già visto nel 1994. E due anni prima a Nino Andreatta - che non a caso io ho più volte evocato in questa campagna elettorale - si preferì un (allora) Carneade. Però domenica è successo qualcosa di ancor più sorprendente: al tempo, dopo l’uragano di Tangentopoli, il centrosinistra autonomista infatti non esisteva. Era diviso in tre, talvolta anche in quattro o cinque pezzi. Questa volta nemmeno una super alleanza, capace di rappresentare ad esempio l’intera giunta provinciale, ha resistito all’onda nazionale. Onda senza aggettivi. Perché è troppo comodo definirla populista, malpancista, sovranista, rabbiosa, disillusa, delusa o altro ancora. Il malessere e il distacco dall’isola trentina dove tutto funziona bene - dato peraltro messo spesso in discussione - ha origini lontane e profonde. Origini che una certa politica - si pensi alla costanza della Lega - ha saputo cavalcare abilmente e che un’altra parte politica ha sempre sottovalutato. Confondendo l’autoreferenzialità con l’autosufficienza. In Alto Adige, lo dicono i dati, più d’uno s’è tappato il naso e più d’uno - soprattutto fra i partiti tedeschi, ma non solo di destra - ha disertato le urne. Ma la maggioranza ha votato secondo le logiche di sempre: con una mano sul cuore e l’altra sul portafoglio, inteso come agglomerato di interessi che l’autonomia ha sempre garantito. Il salto nel buio è concetto lontano dal vocabolario altoatesino. Non a caso tutti i candidati della Svp sono stati eletti, inclusa la carta a sorpresa del Patt (Emanuela Rossini) e i due del Pd che la Svp ha letteralmente trascinato alla vittoria, alla faccia di chi li considerava “stranieri”: la già citata sottosegretaria Boschi e il sottosegretario Bressa. Due uscenti che in termini governativi ad oggi è difficile immaginare rientranti. Il Trentino ama invece le capriole senza rete. Si tuffa sulla moda del momento. E vale sempre ciò che ho sentito dire da una signora in tv: li abbiamo provati tutti, ora proviamo gli altri. A modo suo, una logica ferrea. Fra noto e ignoto l’Alto Adige sceglie sempre il primo: l’ombrello sicuro della tradizione. E il Trentino opta da tempo per il secondo: il temporale estivo del cambiamento. Si potrebbe obiettare che anche in Alto Adige c’è un angolo nel quale il voto somiglia a quello nazionale: si tratta di Bolzano, che indubbiamente risente dell’aria che tira nel resto dell’Italia. Ma Bolzano rappresenta ormai poco più che un contorno nel menù del voto (e del potere) altoatesino. 

La legge elettorale, che probabilmente verrà presto modificata, ha un pregio: quello d’aver costretto i partiti a puntare sulle donne. E infatti avremo una delegazione parlamentare al femminile. Un fatto storico. Anche dal punto di vista culturale, visto che questo è ancora il Paese dei femminicidi, degli abusi, del maschilismo imperante e degli stipendi sproporzionati (a parità di ruolo il tetto di cristallo impedisce alle donne di guadagnare come i colleghi maschi).

Alzando lo sguardo, va detto che Renzi ha perso il suo secondo referendum nel giro di poche mesi: voleva contare e contarsi. Ne esce con le ossa rotte. Un patrimonio gettato al vento, considerato che solo poco tempo fa, in termini generazionali e politici, sembrava l’unica salvezza. Ha disperso un tesoro ed ha finito per rappresentare ciò che si riprometteva di distruggere: un potere con le solite abitudini e i soliti difetti. Sembra una nemesi persino il fatto che andrà a sedersi in quel Senato che voleva abolire. Peggio di lui ha fatto chi ha messo insieme, alla sua sinistra, i partiti del rancore: la sonora (patetica?) sconfitta di D’Alema e Grasso vale più di qualsiasi commento. 

Il 23 marzo si riunisce il nuovo Parlamento: la fotografia di un’Italia che vuol cambiare ma che non sa ancora con precisione dove vuole andare. Dagli strali (contro i vaccini, l’Europa, i migranti, il lavoro che non c’è, l’emergenza giovani...) si passerà al pragmatismo. Di solito basta sedersi a Palazzo Chigi per cambiare sguardo e per impostare una vera azione di governo. In un cassetto del Quirinale forse c’è già un mandato esplorativo per Salvini o per Di Maio, ma la maggioranza (se c’è) si misurerà concretamente solo sull’elezione dei presidenti della Camera e del Senato. 













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