Il Festival che deve cambiar pelle

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Il Festival dell’Economia quest’anno ci ha detto che è sempre più nebulosa l’epoca delle star. Le star, a quanto pare, le decide (decideva?) Fabio Fazio: chi passa dalla sua trasmissione (o viene imitato da Crozza) entra nella “hall of fame”. L’essere premio Nobel, ministro o grande esperto non serve a nulla senza il “bollino” tv. Infatti il tutto esaurito c’è stato solo per pochi ospiti. Ma il Festival ci ha anche detto che se il tema è azzeccato le folle arrivano comunque. E così le conferenze su cibo e salute o attività fisica sono state gettonatissime. E poi il Festival ci ha regalato anche altre perle. Ma sono tre le cose essenziali che abbiamo notato.

1) L’altro Festival
La grande novità è stata il «tema»:il puntare sulla sanità ha avuto il merito di aprire il mondo talora troppo stretto dell’economia a un’area di interesse fondamentale per i cittadini. Dall’altro lato, però, c’è stato un grosso calo di partecipanti provenienti dall’area più strettamente e rigidamente economica. Pochissimi. Il fatto che le “star” fossero medici di frontiera, epidemiologi e, al massimo, ministri o ex premier (Enrico Letta), non ha avvicinato molti studenti di economia, economisti e, soprattutto, non ha avvicinato imprenditori. Il tema (la salute) è stato forte e attraente; il titolo (“la salute disuguale”) aveva invece un accento un po’ orientato e non proprio digeribilissimo. Ma il Festival si è mosso su un’onda diversa. Insomma, è stato un altro Festival. Ricco di medici, di cittadini interessati al benessere fisico, che ha catturato qualche pattuglia di studenti di medicina, di agraria, di sociologia, di scienze politiche. Mica che sia un male. Anzi. Ma è stato un altro Festival.

2) Il bel Festival
Che per alcuni è divenuto persino il più bel Festival al quale abbia partecipato. Detto da Federico Rampini, per esempio, che è stato ospite di tutte e dodici le edizioni (quasi come fosse ritenuto un portafortuna da Boeri), è certamente un complimento. Ma in effetti proprio l’aver gettato l’amo sul tema della salute ha messo in moto una vasta area di persone interessate, che ha realizzato con chiarezza che il Festival ha un ché di universale, che può parlare davvero a tutti e offrire nuove chiavi di lettura e di riflessione. Un momento per rigenerarsi. Ecco quindi il «più bel Festival». Che è rimasto bello come negli scorsi anni per il «clima da Festival» che è stato vissuto da molti. L’incontrare la studentessa, il pensionato, la prof e il medico tutti in fila appassionatamente per ascoltare Gino Strada o Pier Carlo Padoan, beh, rimane uno dei momenti migliori dell’anno per una città come Trento. Un momento di “universalità” che si coniuga con “Università”. Un clima meno festoso di altri anni,ma aperto e paritario come sempre.

3) Il mondo vecchio e quello nuovo
Il rischio, invece, che il Festival corre rispetto a quando nacque, dodici anni fa, è di restare vittima di un’impostazione che risale a “prima del mondo di oggi”. Questa definizione la raccogliamo da ciò che ha detto Enrico Letta, venerdì all’Auditorium di Lettere, dove ha tenuto una sorta di “lezione” sull’Europa di oggi. «I motivi per cui si fa l’Europa oggi non sono più gli stessi motivi per cui l’abbiamo fatta prima di questi dieci anni che hanno cambiato il mondo e l’Europa. Dobbiamo cambiare anche le parole. E il 2016 è stato un anno di frattura. Il punto terminale di un periodo sconvolgente». Se è vero - come afferma Letta - che ora il mondo è un altro e che bisogna cambiare pure le parole, anche il Festival (proprio peri suoi nobili fini, la voglia di creare reti di interesse e stimoli di riflessione) ha forse necessità di modificare qualcosa nella sua struttura. Incontri-lezioni molto frontali, dialoghi talora percepiti come “salotti”. Lanciando dei tweet e dei post su Facebook proprio sul Festival dalle colonne (social) di questo giornale, molti lettori-internauti hanno replicato: «Basta slogan, basta festival, basta salotti: servono fatti». Anche questo, ovviamente, è uno slogan. Però mostra che persino il Festival rischia di rinchiudersi dentro le mura antiche del salotto, del professorale, del populisticamente “maledetto ti odierò”. Forse qualche “lezione un po’ meno lezione”, qualche “simulazione”, qualche “gioco serio”, almeno come esperimento non farebbe male. Quanto agli invocati “fatti”, si sa, spetta alla classe dirigente riuscire a declinarli.
È un periodo non semplice, la classe dirigente è debole, ma sparare anche sul Festival non aiuta certo la nostra classe dirigente a crescere. Però il mondo è completamente cambiato, come dice Letta. Bisogna prenderne atto: convivere con il populismo senza farne drammi. Ma iniziando a calpestare nuovi sentieri.













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