L'Africa nera debutta al MoMA



NEW YORK - Sembra impossibile, ma finora al MoMA non era successo: per la prima volta il museo d'arte moderna di New York dedica una retrospettiva a un artista dell'Africa nera. Le città ideali di Bodys Isek Kingelez, morto a 66 anni nel 2015 a Kinshasa, sono al centro della mostra "City Dreams" aperta fino al primo gennaio 2019 con pezzi provenienti quasi tutti dalla collezione di arte africana contemporanea di Jean Picozzi a Ginevra. Sono sculture? Modelli architettonici? Basato nell'allora Zaire (oggi la Repubblica Democratica del Congo) dopo l'indipendenza del paese dal Belgio, Kingelez usava oggetti di scarto di uso quotidiano - plastica, carta colorata, lattine di bibite, imballaggi, tappi di bottiglia e cartone - per realizzare edifici e città immaginarie che riflettevano i suoi sogni per Kinshasa, per la stessa Africa e per il mondo. Chiamava le sue costruzioni "Maquette estreme": visioni fantastiche e utopiche per una società del futuro più armoniosa. "Una nazione che non fa modelli è una nazione che non capisce, una nazione che non vive", diceva Kingelez che nel 1977 aveva cominciato a sperimentare con le sue costruzioni fantastiche e dal 1985 si era dedicato a quello che chiamava "modellismo architettonico": centinaia di edifici e poi, dal 1992, intere metropoli come l'utopica "Ville Fantome" del 1995, immaginata come una città pacifica dove "tutti sono liberi", poliziotti e soldati non servono, "un melting pot per tutte le razze del mondo". Pur non essendo mai stato fuori dalla Zaire fino al 1989, Kingelez era eccezionalmente attento agli eventi mondiali e preoccupato dei problemi sociali del pianeta. Il suo "Centro Scientifico di Ospedalizzazione per l'Aids" del 1991 allude all'epidemia che ancora vent'anni dopo faceva due terzi delle sue vittime nell'Africa subsahariana, mentre il "Palazzo di Hiroshima" nello stesso anno affronta la condizione del Giappone post-bellico e "Nazioni Unite" del 1995 è un omaggio ai primi 50 anni dell'Onu e ai suoi peacekeepers. Dell'anno prima è Kimbembele Ihunga, in cui l'artista reimmagina il villaggio rurale dove era nato con tanto di stadio di calcio, banche, ristoranti e grattacieli. La mostra al MoMA non sarebbe stata possibile senza l'apporto della Collezione Pigozzi. Pigozzi, il miliardario franco-italiano erede della Simca che in Africa non ha mai messo piede, ha raccolto con l'aiuto di Andre Magnin oltre diecimila opere di oltre 80 artisti africani con tre semplici regole: "dovevano essere dell'Africa nera, vivere e lavorare lì, non contaminati dall'aver frequentato le belle arti o visto troppi Klimt e Picasso".









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