Michelotto e la guerra delle “cucine”

Amarcord. Il trentino della Scic perse il Giro per gli attacchi di Gimondi (Salvarani)


di Carlo Martinelli


di Carlo Martinelli

La scritta c'è ancora, tracciata con vernice nera. Sta lì da oltre quarant'anni, lungo la strada che da Ora ed Egna porta alla valle di Fiemme. Fu vergata in occasione del Giro d'Italia del 1971: "La mafia ha battuto la Scic". Racconta una pagina a suo modo ancora misteriosa della storia del ciclismo, racconta di un corridore trentino coriaceo quanto schivo, capace di imprese importanti quanto deciso – a carriera finita – nello scivolare in un anonimato che assume a volte il tratto della scontrosità. Si racconta di Claudio Michelotto, il ciclista di Roverè della Luna (classe 1942), che nel suo palmares annovera vittorie nella Tirreno-Adria­tico, nel Giro di Sardegna, alla Milano -Torino, al Giro di Campania, al Trofeo Laigue­glia. Per non parlare del secondo posto al Giro d’Italia 1969, quando vinse la tappa dolomitica di Cavalese. In facebook una pagina a lui dedicata, curata da Franco Sandri, michelottiano convinto, ci restituisce storie, curiosità e immagini di un campione a suo modo unico. Ed è quel Giro del 1971 ad essere segnato da un episodio mai chiarito. Correva con i colori della Scic (cucine componibili) il nostro. Conquistò la maglia rosa, la tenne per dieci giorni dopo averla strappata ad un altro trentino, Aldo Moser. La difese con orgoglio salvo perderla sul Pordoi, martedì 8 giugno, nella tappa che da Lienz, in Austria, portava a Falcade. Quel giorno cadde, arrivò sanguinante al traguardo, si ritirò. Disse: “Avevo appena iniziato l'ultima discesa, stavo spingendo a fondo, queste sono le strade di casa mia. Mi si è afflosciato il tubolare posteriore, la bicicletta ha sbandato come impazzita, sono volato sull'asfalto, sono rotolato giù per una ventina di metri. Sanguinavo parecchio, mi sono annodato un fazzoletto alla meglio, ho proseguito come in "trance". Ma il telaio era storto, i freni non funzionavano più bene, in ogni curva ero costretto a strisciare i piedi per terra. Ho cambiato bicicletta, negli ultimi chilometri mi sembrava quasi di non sentir più dolore, sentivo soltanto il sangue che mi scorreva sul volto. Poi mi sono mancate le forze, non ho più capito nulla”.

I suoi tifosi – all’epoca tanti ed irruenti: “colpevoli” di spinte e del poco ortodosso lancio di chiodi, si disse – accusarono Felice Gimondi, che correva per la Salvarani (cucine componibili). Il campione bergamasco vinse alla grande la tappa di quel giorno, forte di un attacco rabbioso. Ma l’effetto di quella sua condotta di gara fu che in maglia rosa finì lo svedese Gosta Petterson che, poi, il Giro lo vinse. C’è dell’altro: il primo giugno, a Mantova, il Giro osservò il suo giorno di riposo. Michelotto ne approfittò per una incombenza medica, antipatica quanto necessaria: si fece togliere il verme solitario. Raccontò: “Dovetti stare in bagno tutto il giorno. Ero indebolito e qualcuno fece circolare la notizia del mio malessere. Iniziarono così ad attaccarmi continuamente, finchè mi strapparono la maglia e il Giro lo vinse Petterson”. Nella cronaca di un quotidiano nazionale, il giorno dopo, si poteva leggere, papale papale: “Non gli ha resistito (a Gimondi, ndr.) invece Michelotto, del quale si parla oggi come di una vittima della guerra tra le cucine componibili”.













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