l’intervista»GIUSEPPE LATERZA, LEGGERE PER LEGITTIMA DIFESA

Si intitola “Leggo per legittima difesa”, l’incontro che domani (lunedì 20 novembre) vedrà all’Università di Trento l’editore Giuseppe Laterza, alle 18 nell’aula 7 del Dipartimento di Lettere. Titolo...


di Paolo Morando


Si intitola “Leggo per legittima difesa”, l’incontro che domani (lunedì 20 novembre) vedrà all’Università di Trento l’editore Giuseppe Laterza, alle 18 nell’aula 7 del Dipartimento di Lettere. Titolo opportuno, visto il desolante clima sociale (e culturale, e politico) dell’Italia dei nostri giorni. La prima cosa che farà sarà distribuire a tutti una tabellina, quella che trovate in questa pagina: «L’ho costruita negli anni, perché mi è utile. Ci sono sette colonne: nella prima i Paesi europei sono divisi a seconda della percentuale dei lettori, e si va da quelli del Nord Europa in cui si legge di più, come Svezia, Danimarca e Norvegia, a quelli in cui si legge meno tra cui noi, Grecia, Bulgaria e Romania».

Siamo ultimi?

No, ma quasi. A fianco di questa colonna ce ne sono altre due, che indicano gli investimenti nella scuola e nella ricerca. E i Paesi in cui legge di più sono quelli in cui si investe di più in scuola e ricerca. L’Italia è nettamente al di sotto della media europea.

E le colonne successive?

Rappresentano gli indicatori economici più interessanti: il tasso di disoccupazione, i cosiddetti “neet”, cioè i ragazzi che né studiano né lavorano, lo sviluppo negli ultimi 10 anni e, ultimo, il reddito, o meglio ancora, il consumo: quanto nei diversi paesi si può acquistare e consumare. Un dato quindi che non dipende dalla forza della moneta locale. E i Paesi in cui si leggono più libri sono anche quelli in cui si sta meglio economicamente. La domanda che farò è semplice: come mai, se è così evidente che c’è una correlazione positiva tra l’indice di lettura e il benessere misurato in tutti i modi possibili, in Italia da decenni non si investe nella promozione della lettura, e naturalmente ancora prima nella scuola e nella ricerca? Perché la nostra classe dirigente è così poco sensibile a questo aspetto?

Forse perché tutti osservano la tabella da destra a sinistra: leggono perché sono ricchi. Il classico errore statistico di correlazione inversa.

Esatto. Il che è anche vero, naturalmente, però nessuno si pone mai il dubbio se ci sia anche una correlazione da sinistra a destra: forse sono ricchi anche perché leggono o investono nella scuola. Ma c’è anche una seconda risposta, che sta nel processo, diciamo così, di “miopizzazione” della classe dirigente italiana, che non riesca a guardare oltre 2-3 mesi. Quando ho a che fare con persone che hanno responsabilità istituzionali e politiche, con poche eccezioni devo concordare l’appuntamento nelle 48 ore prima, perché la loro agenda si costruisce giorno per giorno. Questo già ci dice come lavorano: non programmano nulla. E questo fa sì che non investano in scuola e ricerca perché settori che non danno benefici immediati. E lo stesso riguarda la promozione della lettura.

Leggere quindi per legittima difesa da chi ci governa?

Credere nella potenzialità economica e sociale della lettura, e promuoverla, significa dare un futuro a questo Paese, che altrimenti è condannato a diventare la Disneyland dei ricchi americani, anzi dei russi e dei cinesi. Va benissimo avere i Farinetti, i Cracco, ma francamente l’Italia può fare meglio. L’ingrediente fondamentale del piacere della vita questo Paese lo offre e continua a offrirlo, ovviamente per chi può, perché non tutti possono, non dimentichiamolo: abbiamo splendidi hotel, grandi ristoranti, però possiamo dare un contributo maggiore anche in settori più avanzati.

La casa editrice Laterza esiste dall’inizio del ’900, quindi da molto prima della Repubblica: è cambiato l’approccio della classe dirigente alla promozione culturale in questi anni? È sempre stato così o il punto più basso lo abbiamo toccato ora?

No, io penso che sia sempre stato così. Ci sono singole persone che hanno più attenzione, ma che da sole possono poco: il problema sono Confindustria, Confcommercio, l’establishment italiano che pensa che la cultura sia un optional. Tullio De Mauro, nel suo libro “La cultura e gli italiani”, alla domanda che cos’è la cultura, dice che è la risposta a un bisogno. Una risposta non geneticamente determinata ma elaborata storicamente. E la cultura aiuta a rispondere a questo bisogno nel modo migliore.

Cosa che oggi l’Italia non fa.

Se oggi ci sono tanti bisogni a cui non si dà risposta è perché l’Italia è un Paese ignorante. Si può anche non leggere libri o non andare a teatro, la cultura non è questo: è la capacità di orientarsi nei mondo, di percepire un problema, di avere dei dubbi. Questo è invece un Paese in cui sono sempre meno coloro che hanno dubbi: la gente urla ed è sicura delle cose che dice, senza mai porsi il problema di ascoltare. Ma anche il mio mondo ha una grave responsabilità, perché ha sempre considerato la cultura solo come un patrimonio da custodire, quando invece si tratta di una relazione da costruire.

La cultura petrolio dell’Italia, si dice infatti.

Metafora che trovo assurda. Quando sono entrato in casa editrice, mio padre mi disse: abbiamo un catalogo di migliaia di titoli, che rappresenta il nostro patrimonio, ma se tu ogni giorno non lo rinnovi, anche prendendo iniziative rischiose, a volte anche in contraddizione con la tua storia, il tuo catalogo non vale nulla. Quindi va riproposto, aggiornato, trasformato. Certo che il Colosseo è un patrimonio, ma se tu lo lasci andare, se non ci costruisci attorno iniziative di coinvolgimento delle famiglie, concerti, se non fai divulgazione, di per sé non vale niente. L’errore gravissimo dei “sapienti” è stato quello di collocare nei musei targhette assolutamente inutili per il pubblico: parole su parole, la datazione, il numero di pietre… E poi non si dice che cosa ci si faceva in quel luogo, perché al sovrintendente non interessa.

I colti che parlano solo ai propri pari: è questa la colpa?

Quasi sempre i colti parlano a chi già sa. Quindi, una faccia del problema è una classe dirigente mediamente ignorante: basta pensare che i libri professionali in Italia sono i meno venduti in Europa. I nostri manager non sentono il bisogno di istruirsi sui libri: tanto sono già stati assunti, perché amici del proprietario.

Come diceva il ministro Poletti: contano le partitelle a calcetto con gli amici.

Proprio così. E dall’altra parte ci sono le persone colte che tendenzialmente parlano agli altri loro colleghi universitari. L’altro giorno ero a Lecce, dove presentavo l’ultimo libro di Bauman, “Retrotopia”, con quattro sociologi: non le dico la batteria di citazioni che hanno fatto, nomi sconosciuti a tutti quelli che avevano davanti a loro. Non gliene importava niente. Quindi il grande lavoro che deve fare un editore, quello che io chiamo lavoro culturale, è trasformare le idee in senso comune. E proprio Bauman ne è una dimostrazione: l’idea di società liquida, dal suo libro “Modernità liquida” del 2000, è diventata senso comune. Oggi è un concetto che leggiamo tutti i giorni sui giornali, al punto di diventare quasi una barzelletta, senza sapere che viene da Bauman. Ma questo significa che il lavoro culturale, per come lo intendo io, è stato fatto bene.

Quindi c’è speranza. O no?

Io credo che in Italia esista una élite senza potere: i 3 milioni di lettori forti, che leggono almeno un libro al mese, e sono poi gli stessi che frequentano le gallerie e i musei. E la storia la fanno le élite. Queste persone spesso non siedono nei cda o in Parlamento, non prendono le decisioni. Ma sono élite perché sono più lungimiranti, con un fortissimo senso del collettivo. Penso al Festival dell’Economia di Trento, dove arrivano in migliaia: ma non per semplice sete di conoscenza, vengono ad ascoltare economisti che potrebbero sentire su YouTube, o leggerne i libri. No, vogliono farlo assieme ad altri, in un’esperienza comunitaria. Appunto: la cultura come relazione. È questa la nostra potenziale classe dirigente: loro possono sì migliorare il Paese.

E la tecnologia? Tutto quello che si diceva qualche anno fa sull’avvento del Kindle, del digitale: non è andata così. Altro che declino del libro come oggetto in se stesso.

Questo è un discorso molto interessante. Negli Stati Uniti assistiamo a una fase di regressione nel mercato dell’e-book, che era arrivato al 20% e oggi siamo al 16, smentendo tutte le previsioni c fatte in base a un’ideologia anche oggi largamente diffusa: la tecnologia come un destino, che apre le porte al futuro indipendentemente da ogni scelta culturale e politica. Ma così non è: le nostre scelte avvengono in base a preferenze più complesse. Oggi però c’è un’altra battaglia: assicurare la pluralità del mercato.

Il caso Amazon: giusto?

Certo. In Usa detiene il 50% del mercato e questo è un problema enorme: si potrebbe risolvere semplicemente dicendo che Amazon deve pagare le tasse come gli altri. Basterebbe attuare il principio di tutte le Costituzioni europee, secondo cui tutti i cittadini sono uguali. E che quindi non va bene che Amazon abbia sede in Irlanda e paghi le tasse come se vendesse solo lì tutto ciò che vende. Solo ora i nostri governanti iniziano ad accorgersene. Perché sono schiavi di un’ideologia di antica data, almeno dagli anni ’80, secondo cui la tecnologia libera l’uomo. Ed è vero. Ma può anche renderlo schiavo, come tutti oggi lo siamo del telefonino. Anche la tecnologia dipende dalla cultura, che ci dà gli strumenti per controllarla.

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