Educa e il lato oscuro della rete 

Rovereto. Il Festival dell’educazione ha chiuso i battenti con un bilancio importante, sia in termini di offerta culturale sia di pubblico A lasciare il segno soprattutto l’anteprima nazionale di “The Cleaners”. Degli Esposti: «Quando sul web un servizio è gratis, il prodotto siamo noi»


Marzio Terrani


Rovereto. Più di 90 appuntamenti fra cui 18 incontri (lectio magistralis, focus e dialoghi) con esperti nazionali, ma anche grande spazio all’esperienza con 42 laboratori, 20 attività animative a cui si aggiungono le 16 proposte della giornata di apertura del festival, alle quali avevano preso parte 700 studenti di tutte le età. Questi i numeri di “Educa” , il Festival dell’educazione che ha chiuso da poco il sipario sulla decima edizione dedicata quest’anno ai rapporti tra scuola e famiglia.

Il bilancio finale.

Soddisfatta la coordinatrice scientifica, Paola Venuti: «Abbiamo colto una varietà di posizioni e indicazioni dai molti esperti intervenuti, ma tutti i contributi scientifici e le ricerche, così come le pratiche presentate confermano unanimemente la necessità di ripensare condizioni, strumenti e metodi della relazione tra insegnanti e genitori. Il nostro intento non era quello di proporre una soluzione universale che non esiste, ma di provare a capire dove sono i nodi critici e quali sono le strategie che si possono mettere in campo. E lo abbiamo fatto invitando relatori con competenze molto differenti: pedagogisti, psicoterapeuti, filosofi, esperti di comunicazione digitale, avvocati, scrittori, sportivi. È difficile perciò - prosegue la coordinatrice - fare una sintesi, credo però che trasversale a tutti gli interventi sia stata un’indicazione culturale e cioè che educare da soli è impossibile, occorre farlo insieme prendendosi cura dello sguardo altrui, attraverso una relazione autentica. Su questo molto ci possono insegnare proprio le esperienze di frontiera e quelle che riguardano i bambini e i ragazzi più fragili cui abbiamo dato grande spazio ottenendo una altissima attenzione e partecipazione». E a proposito di fragilità, un segno forte l’ha certamente lasciato il docu-film in anteprima nazionale “Il lato oscuro”, proiettato al Melotti davanti a una platea di 400 spettatori.

Il lato oscuro dei social.

Un docufilm, come in tanti hanno detto, forte come un pugno nello stomaco e che entra a gamba tesa nel mondo dei social network con un quesito molto mirato:chi rimuove le immagini impubblicabili, sconvenienti, che turbano pudore e sensibilità? Sono algoritmi o persone fisiche? E quanta censura digitale c’è nei singoli Paesi?«Ignora, cancella, ignora, cancella» è il ritornello ossessivo e martellante che accompagna lo spettatore nell’arco dei novanta minuti del film. Sotto i riflettori ci sono i cosiddetti «cleaners», gli spazzini del web. Persone che passano, per lavoro, spesso in società esterne e appaltate dagli «over the top» del mondo digitale, giornate intere a selezionare le immagini e i video che possono e non possono restare postate e pubblicate sui social network. Una mole impressionante di lavoro di selezione. Ogni operatore ne visiona fino a 25.000 al giorno, decidendo se lasciarle o rimuoverle con un clic dalla sua postazione. Un lavoro alienante ma necessario. Le linee guida dei cleaners vietano immagini di nudo, pornografiche, violente, lesive della dignità delle persone, di terrorismo, di sfruttamento minorile.

Gli spazzini del web.

Questi «spazzini del web», «moderatori di contenuti» – racconta il docu-film, che ha colpito dritto al cuore il pubblico – per contratto non possono rivelarsi, devono lavorare in incognito. In luoghi insospettabili, come i grattacieli di Manila, capitale delle Filippine. Ma ci sono altri meccanismi spesso opachi che riguardano la rimozione di contenuti talvolta scomodi politicamente, di dissenso: i social media, portabandiera della libertà di espressione, diventano invece terreno di censura. I giganti del web, racconta ancora il docu-film, fanno inevitabilmente accordi con i singoli governi su cosa va rimosso dalle piattaforme social. E a farlo non provvedono solo algoritmi, ma anche persone in carne ed ossa, che si chiedono perché lo fanno e spesso, di fronte a tante immagini crude, vanno in «burnout», cedono psicologicamente. Facebook è il più grande Stato virtuale del mondo, con i suoi tre miliardi di utenti. Su Youtube ogni minuto vengono caricati 500 minuti di filmati. Numeri che danno la misura della pervasività della società digitale, fatta di byte, spesso indistinta e più potente di quella reale, fatta di atomi. Nel dibattito che ha arricchito la visione del docu-film, Piergiorgio Degli Esposti, docente universitario di Processi culturali della comunicazione a Bologna, ha sottolineato come siamo ormai immersi nella cosiddetta «società delle piattaforme».

Quando il prodotto siamo noi. Apparentemente giardini incantati che ci permettono lussi e interazioni infinite. Più un club privato, però, che uno spazio pubblico come crediamo. «Quando un servizio è gratis, il prodotto sei tu, anche se ti illudi di essere il cliente» ha aggiunto Emanuela Zaccone, influencer, esperta di strategie digitali, che ha aggiunto: «Per anni abbiamo detto che quanto di sgradevole viene pubblicato sui social non è colpa del medium. Oggi questa tesi non è più sostenibile, perché i social sono delle vere e proprie media company». Gli hate speech (post che trasmettono odio), la gestione dei profili degli utenti defunti, il difficile confine tra satira e offesa, tra arte e pornografia sono stati altri temi al centro del confronto. «I social sono nati come un gioco nei dormitori dei campus universitari americani. Oggi controllano l’informazione e l’economia a livello globale. Ci mangiano il tempo e noi doniamo loro le nostre informazioni» ha rimarcato il professor Degli Esposti. «Riprendetevi il vostro tempo, siate più critici, diventate cleaners del vostro microcosmo digitale» ha detto la Zaccone, in conclusione, alla platea.

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