Aminta, il Tasso si fa sonoro e la parola è la protagonista 

Michelangelo Dalisi, in scena oggi al Sociale di Trento, racconta il lavoro di Latella «I giovani dicono che la musicalità della recitazione è molto simile al ritmo rap»


di Katja Casagranda


TRENTO. Inaugura con un lavoro su Torquato Tasso la stagione della rassegna Altre Tendenze, organizzata dal Centro Culturale Santa Chiara di Trento e dedicata alle nuove proposte, quelle più sperimentali, come del resto lascia intendere il titolo, della scena teatrale nazionale. Per l’occasione al Teatro Sociale di Trento arriva l’ultimo lavoro del regista campano Antonio Latella. S’intitola “Aminta” come l’omonima opera del poeta rinascimentale Torquato Tasso, appunto, e si confronta con la scrittura in versi per un lavoro che ruota attorno alla parola. Ce ne parla Michelangelo Dalisi, attore del cast, in scena questa sera alle ore 20.30 al Teatro Sociale.

Quale strada ha preso “Aminta”?

«La coproduzione Stabile Mobile e Amat Teatro, che ha debuttato a novembre a Macerata, ha avuto genesi in un piccolo paese delle Marche, Esanatoglia, in un progetto di riqualificazione delle zone colpite dal terremoto, riqualificazione sia dal punto di vista architettonico che sociale. In questo borgo semidisabitato, con l’evidente ferita dovuta al disastro sismico, siamo partiti con il lavoro su Tasso e la sua letteratura. Ci siamo posti delle domande, a iniziare con quella sull’identità. Cosa fosse l’identità per noi e cosa significasse identità nazionale. È cresciuto quindi l’orgoglio verso la grande tradizione nazionale legata alla poesia e la letteratura, oltre che la grande lingua italiana del passato di cui passo dopo passo si sono riscoperti termini, ricchezza di linguaggio e un vocabolario che nel tempo è andato perso a discapito della cultura italiana. Senza voler accender nessuna polemica ma facendo una pura constatazione...».

Un lavoro quindi sul testo?

«Tutto ruota attorno al testo, la lingua e la parola, tanto che nella visione registica di Latella la parola è la vera protagonista e tutto lo spettacolo è al suo servizio. Il movimento è bandito dalla scena per dar risalto al testo. Lo scopo è quello di riappropriarsi del linguaggio e della bellezza della poesia italiana. Il chè è stato concretamente una sfida e un’incognita».

In che senso?

«Quella relativa al pubblico e a come avrebbe accolto un lavoro di questo tipo. La sorpresa è stata grande per il successo e l’interesse suscitato, soprattutto nei giovani. Molti giovani infatti al debutto hanno fatto notare, dopo lo spettacolo, come la musicalità della recitazione fosse simile al ritmo rap».

Un po’ la riscoperta della musicalità delle lingue antiche?

«Poesia e metrica assomigliano al rap e questo può rappresentare un ponte generazionale. La poesia ha una funzione che va al di là del senso delle parole perché arriva come emozione, così come il teatro che risponde ad altre logiche al di là della narrazione. È stato fatto un gran lavoro con il nostro sound designer e da parte di Latella che voleva che la lingua italiana arrivasse ancor prima del testo, chiedendoci uno sforzo nel metterci a servizio di questa visione registica attraverso l’immobilità, che per un attore è fonte di sofferenza ma che in questo caso era fare un passo indietro a servizio della resa dello spettacolo».

Quindi uno spettacolo sonoro?

«Uno spettacolo con un testo importante e qui vorrei sottolineare il lavoro di drammaturgia, che spesso i teatri danno per scontato, ma che invece è importantissimo anche a contatto con gli attori. Linda Dalisi ha lavorato sul testo e soprattutto ha aiutato noi a farcelo nostro nel modo funzionale all’”Aminta” di Latella.»

Cos’è l’Aminta di Latella?

«Una grande domanda su cos’è l’amore. Che poi è la domanda intrinseca dell’Aminta di Tasso. Non è uno spettacolo canonico, ma potrebbe anche risultare scomodo al pubblico, tuttavia se suscita un’emozione e lascia un sentore, una domanda, un pensiero, allora ha colto nel segno. Il teatro e l’arte devono fare questo, altrimenti sono solo intrattenimento. Se invece ti smuovono dentro, magari anche un senso di fastidio, allora smuovono un qualcosa e quindi hanno fatto centro perché hanno piantato un seme che poi prenderà una sua vita, ma qualcosa è cambiato e questo da il senso di fare arte».

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