Riva, cala il sipario sulla gioielleria Armani

Il 31 dicembre chiude un simbolo della Riva borghese. Armida e Gianfranco Spisani: «Oggi si preferisce l’iPad all’oro...»


di Cesare Guardini


RIVA. La gioielleria Armani di via Gazzoletti chiude l'attività col prossimo 31 dicembre. E con la vendita, che continuerà per altri diciotto giorni a prezzi di realizzo degli ultimi pezzi rimasti nelle vetrine e nella cassaforte, cala il sipario su una delle botteghe più vecchie ed illustri d'una Riva borghese ed illuminata, paradigma della parabola della città dalle macerie del primo dopoguerra ai nostri giorni.

Andrea Armani, classe 1894, la aprì negli anni Venti del secolo scorso, suo fratello Umberto la portò avanti fin al secondo dopoguerra. Dopo che Umberto venne ammazzato dai tedeschi sullo stradone per Arco, Lina, l'erede, associò alla gestione sua sorella Ines col marito Adelfo Fracchetti. In quegli anni la bottega divenne quel gioiello che è ancor oggi: dall'insegna in ceramica cotta realizzata secondo i suggerimenti di Fracchetti ai vetri di Murano per illuminare l'interno, alle lampade delle vetrine, ai mobili costruiti sul posto dai falegnami Volpato e Cavaleri in noce turco fumè.

Scomparso Fracchetti all'inizio degli anni Settanta, le sorelle cedettero ad Armida ed a suo marito Gianfranco Spisani che, passati 50 anni insieme, hanno deciso di ammainare bandiera. Due i motivi. Da una parte sono cambiati i tempi. «Una volta non c'era fidanzamento senza il suggello d'un anello: fosse il solitario importante di chi se lo poteva permettere o il brillantino conquistato coi risparmi sulla paga. Non c'era nascita, prima comunione, matrimonio, anniversario importante che non fossero accompagnati da un segno d'oro, un corallo. Nell'immaginario d'ogni signora non poteva mancare la collana di perle (da portare assolutamente, altrimenti intristiscono). Oggi quella fascia intermedia che può permettersi qualche spesa ma deve scegliere, sono orientate sulle nuove tecnologie, telefonini, i-pad. I ricchi, quelli che i soldi li hanno davvero e non sono sfiorati dalla crisi, preferiscono non esibire, e puntano ai braccialettini di vetro colorato».

Ma la ragione più fonda è generazionale: dei tre figli, Andrea, Italo e Lucia, nessuno è disposto a continuare. «Se lo fai per qualcuno, si può tirare avanti. Non vale più la pena se lo fai solo con la prospettiva di “morire sul bachetom”».

Italo, l'unico rimasto a Riva (gestisce il caffè all'angolo di fronte alla Rocca), trova nell'esperienza dei suoi genitori, combinata col mutare dei tempi, la ragione del no. L'esperienza è quella della rapina dell'84 - due anni dopo si sarebbe saputo che il capo era della banda di Vallanzasca- entrano appena calato il buio nella via deserta, invasa dalle impalcature del cantiere per la ristrutturazione del palazzo di fronte; puntano la pistola al fianco di Spisani, gettano a terra Armida, si fanno aprire la cassaforte e cominciano il repulisti. Appena s'accorgono che stanno arrivando due vigili, tagliano la corda sull'auto lasciata a motore acceso sotto la torre. Spisani li insegue e spara, spara anche una delle guardie; i due infilano la ledrense, forzano un posto di blocco a Storo e svaniscono verso Idro.

Pesantissimo il danno, tre quarti dei preziosi, mai più recuperate le pietre migliori quelle da offrire ad una clientela affezionata e selezionata, ma a quei tempi rimediabile. «Accadesse oggi - suggerisce Italo e conferma suo padre - sarebbe fallimento garantito».

Ci sono stati anni davvero buoni: «Fra la metà dei Sessanta e la fine Ottanta compravano bene anche i tedeschi, perché l'oro da noi costava meno ed il marco valeva tanto. Nel 2012 si può valutare un calo intorno al 30%». Gianfranco Spisani è stato lungamente impegnato nel sociale: eletto in consiglio comunale con Santi, si dimise per assumere la presidenza dell'Amsea; dall'85 al '92 è stato assessore e vicesindaco con Enzo Bassetti; nel '94 è entrato in Senato col primo governo Berlusconi.

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