«I miei mi volevano dentro gli schemi Mi sono fatta di coca per ribellarmi»  

Le testimonianze. Il racconto degli ospiti degli appartamenti dell’Associazione famiglie tossicodipendenti: come sono caduti nel vortice, il rapporto con le famiglie, la vita di furti e spaccio e i tanti tentativi di risalire


Ubaldo Cordellini


Trento. Li chiamano drogati, tossici e li tengono lontani. Ma sono persone. Giovani e meno giovani. C’è chi ci è caduto venti o trenta anni fa e chi c’è dentro da qualche anno. C’è chi si faceva di tutto quello che trovava e chi aveva scelto la sua droga, c’è chi ne uscito da poco e chi ancora non ci è riuscito del tutto, ma ci prova con forza. Si sono ritrovati tutti intorno a un tavolo in quello che non è solo un punto di riferimento, ma un focolare, una casa, calore umano, affetto, amore, ossia l’Associazione famiglie tossicodipendenti. Ognuno con la sua storia e le sue sofferenze. Ognuno con la consapevolezza che bisogna uscirne. E gli operatori dell’Aft li aiutano a farlo, fedeli al motto che campeggia sulla sala: «La guarigione è una questione d’amore». Hanno voglia di raccontare la loro storia, di far sapere come può essere facile caderci e drammatico uscirne. I nomi che useremo sono tutti di fantasia, per tutelarli, ma loro esistono, soffrono e lottano per davvero. Come Giovanna, 23 anni occhi azzurri e capelli biondi. Lei ne è uscita da qualche mese, ma è ancora in marcia. È ospite di uno degli appartamenti dell’Aft insieme al suo ragazzo, che chiameremo Carlo, e ha smesso da qualche mese.

Il suo è il racconto di una ribellione: «Io venivo da una famiglia di ricchi. Ho sempre sofferto per la grande pressione che i miei esercitavano su di me. E ho sempre fatto la pazza per uscire dai loro schemi. Poi, verso i 16 anni, ho iniziato a bere e a fumare canne. A 18 anni ho iniziato a sniffare cocaina e ho continuato a provare. Mi ubriacavo, ma i miei non si erano accorti di nulla. A 18 anni sono andata a vivere da sola in una casa di mia madre. L’ho fatto perché ero sempre persa e ho una sorella più piccola. Temevo di essere un cattivo esempio, così sono andata via di casa. A 19 anni ho trovato l’eroina e mi sono fermata lì. E dire che avevo anche paura degli aghi. La prima volta il buco me l’hanno fatto e poi sono andata avanti. Il mio ragazzo ha cominciato con un’altra compagnia e poi abbiamo proseguito insieme. Siamo andati avanti». Carlo la interrompe: «Ci siamo detti mille volte che dovevamo smettere, che ci faceva male, ma poi ci ricadevamo ogni volta. Andavamo avanti a rubare per trovare i soldi per bucarci. All’apice, consumavamo mezzo grammo di eroina pura al giorno in due. Ci volevano 60 euro al giorno perché volevamo essere sicuri che fosse buona e non tagliata con anfetamine o altre schifezze. Per trovare tutti quei soldi rubavamo. Alla fine l’unica cosa che ci ha fatto smettere veramente è stata la polizia, quando ci ha beccati». «Sì - continua Giovanna - eravamo in Germania quando ci hanno arrestati per furto. Io avevo rubato tutto quello che potevo, anche tutto l’oro e i gioielli di mia madre. Poi siamo andati in Germania, Carlo lavorava nelle pizzerie e nelle gelaterie poi ci hanno preso. Ma il carcere in Germania non è come in Italia. È molto meglio. Lì è come una comunità, c’è un progetto che mira al recupero, ti seguono quando sei dentro e ti trovano una sistemazione quando esci perché sanno che sennò torni a rubare o a spacciare per drogarti. Adesso io e Carlo siamo tornati in Italia, da qualche mese siamo puliti, siamo ospiti di una delle case dell’Aft e teniamo duro. Ma ci sono episodi che fanno schifo. L’altro giorno un vecchio qui di Trento mi ha avvicinato e mi ha offerto di fare le pulizie da lui. Mi sono messa anche paura perché sapeva molte cose di me. Sono stata a sentirlo perché ho bisogno di lavorare e poi lui mi ha detto: ma mica devi fare solo le pulizie. Allora l’ho mandato a quel paese. Io non mi sono mai prostituita. Mi fa schifo ». Poco lontano da lei, Giorgia, non ha avuto la stessa fortuna: «Io mi facevo di cocaina e per procurarmela mi prostituivo. Era tremendo». Accanto a lei la mamma, Ester, annuisce con lo sguardo dolente: «Io ho sette figli e tre hanno avuto il problema della droga. Giorgia è arrivata a vendersi per avere la dose. Poi è andata in comunità, ma è stata male. Si tagliava le braccia, faceva gesti di autolesionismo. È stato difficilissimo. Non è vero come dicono molti che i figli devono essere abbandonati in mezzo a una strada quando si drogano perché solo così capiscono. Non capiscono un bel niente, ma fanno di tutto per continuare a drogarsi. Molto meglio accoglierli con amore e starli a sentire. Giorgia ha trovato la dolcezza e l’amore solo qui all’Aft e si è tirata fuori. Ora soffre, ma è fuori».

Luigi, 43 anni, anche lui viene da una famiglia facoltosa: «I miei erano separati e mia madre parlava sempre male di mio padre. Diceva che ero un drogato, un bastardo e io da quando avevo cinque o sei anni non sentivo altro. Tanto che alla fine quando mi chiedevano cosa volesi fare da grande io rispondevo: il drogato. Non sapevo neanche cosa volesse dire. Poi me ne sono reso conto. Ho iniziato a frequentare una compagnia di sballati e ho iniziato con loro a bucarmi. Adesso sono 10 anni che vado avanti a metadone».













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