Colf del cognato per 30 anni chiede stipendio e pensione 

La donna è arrivata fino alla Cassazione per vedersi riconosciuto il lavoro svolto Ma per i giudici il ménage era all’insegna della reciprocità: ricorso respinto



TRENTO. Per trent’anni ha preparato da mangiare, lavato e stirato i vestiti e rassettato la casa, fatto la spesa. Si è occupata della conduzione della casa, insomma, con annessi e connessi e lo ha fatto non solo per il marito ma anche per il cognato che viveva con loro. E lei si considerava a tutti gli effetti una dipendente del cognato tanto da arrivare fino alla Corte di Cassazione per chiedere all’erede dell’uomo (nel frattempo deceduto) di avere gli stipendi che le sarebbero spettati, oltre alla regolarizzazione della posizione contributiva o il risarcimento del danno, nell'ipotesi di prescrizione, maggiorata di interessi legali e rivalutazione. Insomma voleva che i giudici le riconoscessero il fatto di aver svolto attività da colf e che quindi così doveva essere pagata o risarcita. Ma le aspettative della signora sono state disattese dai supremi giudici che hanno rigettato il suo ricorso. E hanno invece accolto le considerazioni che erano state fatte in sede di appello a Trento. Dove i giudici avevano «motivatamente e condivisibilmente affermato - come si legge in sentenza - che “le risultanze istruttorie non solo non hanno fornito alcun elemento per accertare il vincolo della subordinazione..., ma hanno dimostrato l'esatto contrario e cioè che l'attività” della donna «in ambito domestico si inseriva in un ménage familiare, in cui i fratelli (quindi marito della signora e cognato) si occupavano insieme del lavoro dell'azienda e la ricorrente delle faccende di casa”. Pertanto, deve ribadirsi che i giudici di secondo grado, una volta presi in considerazione gli elementi che connotano la subordinazione e dopo aver analiticamente vagliato le risultanze istruttorie, sono pervenuti, attraverso un percorso motivazionale del tutto coerente» l’esistenza fra ricorrente e un cognato di un rapporto configurabile in quello dipendente-datore di lavoro. E in particolare viene spiegato come «tra persone legate da vincoli di parentela o di affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa, che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa normalmente affectionis vel benevolentiae causa; con la conseguenza che, per superare tale presunzione, è necessario fornire la prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto, l'assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e l'onerosità». Ecco, secondo i giudici la donna non sarebbe stata in grado di portare tutti gli elementi in grado di dimostrare come il suo fosse un rapporto di subordinazione rispetto al cognato. E senza questi per i giudici il loro era una rapporto fra affini dove c’era della reciprocità. Sempre in sentenza, infatti, si legge che il marito e il cognato della donna portavano avanti insieme l’azienda di famiglia e quindi l’attività della donna si inseriva in un ménage familiare complesso dove ognuno faceva la sua parte.

In sintesi i trent’anni in cui la donna riteneva di essere al servizio del cognato, per la Cassazione, non erano altro che anni in cui la conduzione della famiglia si muoveva su questi binari, binari di ruoli e di reciproco aiuto. E quindi la donna non può chiedere gli stipendi e la relativa previdenza. Il ricorso è stato quindi respinto, e l’erede non deve risarcire la donna.

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