GIUSTIZIA

Morti per amianto: il caso Radi si riapre

La Corte di Appello ha incaricato due periti di verificare se l’esposizione prolungata può accelerare il decorso del tumore



ROVERETO. Saranno due epidemiologi del Policlinico di Milano, Carolina Mensi e Dario Consonni, a rivalutare alla luce delle più recenti convinzioni cliniche e scientifiche le due morti per amianto alla Reehm Radi.

E potenzialmente a riaprire quel processo a carico degli amministratori delegati dell’azienda che in primo grado si era chiuso di fronte alla dichiarata impossibilità di chiarire in che momento si sia innescata la malattia. 

Se infatti è accettato da tutti che il mesotelioma che ha ucciso Innocente Cappelletti, nel 2007, e Francesco Fasanelli nel 2010 è un tipo di tumore che si sviluppa solo in caso di esposizione a fibre di amianto, e che quell’amianto i due operai lo avevano certamente respirato sul lavoro alla Radi, dove montavano senza alcuna precauzione guarnizioni in amianto sugli scaldabagni, diventa molto difficile stabilire quando il contatto con le fibre risultate fatali si sia verificato. E quindi quale degli amministratori che si sono succeduti alla guida dello stabilimento possa esserne ritenuto responsabile. In primo grado la procura aveva “sparato nel mucchio” portandone in aula tre: Valerio Fedeli, Francesco D’Angelo e Francesco Merloni. Assieme erano stati amministratori delegati per 8 anni. Ma al processo periti e difese basandosi su giurisprudenza e dottrina medica consolidata, avevano dichiarato l’impossibilità, di fronte ad una malattia che ha anche 20 o 30 anni di latenza, di stabilire quando si fosse innescata la malattia. E quindi chi possa esserne responsabile. Il giudice si era arreso, assolvendo tutti e tre.

La Procura ha però impugnato in appello quella assoluzione, seguita dalle parti civili (gli avvocati Alessio Giovanazzi per i familiari di Cappelletti e Giovanni Guarini per la Cgil) sostenendo che sia le convinzioni cliniche che la giurisprudenza sono evolute, guardando ai casi di mesotelioma in modo molto diverso. Sia dal punto di vista della durata della latenza (che potrebbe essere anche solo di una decina di anni) sia, e questo è il passaggio più rilevante, dal punto di vista degli effetti di una esposizione prolungata nel tempo. Che potrebbero accelerare l’evoluzione, sempre fatale, del tumore, riducendo quindi anche in modo significativo la speranza di vita di chi ne viene colpito.

Ovviamente se dovesse essere ritenuta corretta questa lettura, cambierebbe tutto. Perché se non si può dire con certezza quando la fibra di amianto arrivata nei polmoni ha innescato il processo che avrebbe portato al mesotelioma, si può certamente dire che chi ha permesso che altre fibre di amianto aggravassero la situazione lo ha fatto in tempi successivi. 













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