L’arringa lunga tre giorni tra fatti, storia e politica 

Le udienze all’Aquila. L’avvocato patrocinava i superstiti del disastro che provocò quasi 2000 morti. Nel 2003 scrisse: dobbiamo insistere per denunciare le infamie di allora e quelle di oggi


TONI Sirena


segue dalla prima. Sandro Canestrini patrocinava la parte civile, cioè i superstiti del Vajont. Il processo si svolgeva all’Aquila, dove era stato spostato dalla sede naturale, per “legittima suspicione”, nel supposto pericolo che i giudici potessero essere condizionati dal clima che si respirava a Belluno dopo il disastro del 9 ottobre del 1963 che provocò quasi 2000 morti. Molti lo ritennero un pretesto, per rendere difficile per le parti civili, all’epoca, raggiungere una città così lontana.

Arringhe appassionate

Parlò dunque per 16 ore. Già da qui si capisce che non fu un’arringa soltanto “tecnica”, come non furono mai soltanto “tecniche” le arringhe di Canestrini in altri famosi processi. Fu una appassionata ricostruzione dei fatti, ma anche della situazione storica e politica nella quale quei fatti erano iscritti. Perché, disse Canestrini, «la politica è economia», e non era vero che la Sade (la potente e monopolista società elettrica che aveva costruito la diga, ed insieme alla diga la catastrofe) era «uno Stato nello Stato», come avevano detto altri - dall’azionista e poi radicale Ernesto Rossi al democristiano Alessandro Da Borso, all’epoca presidente della Provincia di Belluno - ma «la Sade è lo Stato». Perciò il processo del Vajont diventava, per Canestrini, un processo allo Stato e al sistema.Scrisse Pansa (il “primo” Pansa), ormai parecchi anni fa e nel 1963 giovane inviato della Stampa sul Vajont, un «ragazzo di bottega» come si definì, che il Vajont era la sintesi di «arroganza dei poteri forti, assenza di controlli, ricerca del profitto a tutti i costi, complicità di tanti organi dello Stato, silenzi della stampa». Ed ancora: «umiliazione dei semplici, ricerca vana di una giustizia, crollo della fiducia in una repubblica dei giusti».

Il partigiano fedele

Accostare i due nomi può suonare irriverente verso Canestrini, ma non è così. Canestrini, il partigiano fedele ai valori della Resistenza, il comunista espulso dal Pci, l’avvocato che prestava la sua voce gratuitamente ai superstiti del Vajont, avrebbe forse sottoscritto quelle parole, e del resto titolò la sua arringa «Vajont, genocidio di poveri». Con una differenza non da poco: se la Sade “era lo Stato” e se la “politica è economia”, quella tragedia brutale diventava un dato strutturale, intrinseco e connaturato al “sistema”. Carlo Bertorelle, nella prefazione al libro pubblicato per la prima volta nel 1969, scrisse che in quell’arringa si ritrovavano, insieme, la denuncia politica, la lucida documentazione, la meditazione filosofica. Canestrini, nella riedizione del 2003, scrisse che «davvero non c’è nulla di nuovo da attualizzare quanto era stato detto allora». E citava alcune delle molte tragedie succedute al Vajont, partorite dalla stessa “logica del profitto”. Perciò, scriveva, non bastava «la pietà per i morti, dobbiamo insistere per denunciare le infamie di allora e quelle di oggi, sicuri che la Storia porterà un’epoca meno buia».













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