Al campo di Marco l’umanità è sospesa 

In 237 aspettano da quasi due anni il “verdetto” sulla loro condizione di profughi. Trascinando le giornate nel nulla


di Luca Marsilli


ROVERETO. La politica è politica. Ma il campo profughi di Marco da cittadini non si può far finta di non sapere cosa sia. Le grandi migrazioni, le condizioni dell’Africa, le responsabilità storiche di quelle condizioni, la politica economica mondiale, addirittura le basi ideologiche e storiche del razzismo, sono temi sui quali si può studiare e discutere. E avere opinioni diverse. Sul fatto che un ragazzo di 20 anni non possa vivere per due anni in un container con 15 o 16 altri ragazzi come lui, potendo contare su un letto a castello e 9 metri quadri di corridoio (da dividere in 16 o 17) come spazio vitale, non c’è margine per avere opinioni: è inaccettabile e basta.

Il campo è nato come soluzione provvisoria, di prima accoglienza. Settimane: quelle che dovevano servire per distribuire i chiedenti asilo sul territorio provinciale. Invece due terzi dei 237 ospiti è lì da un anno e mezzo, gli altri anche da due anni. Vivono in 14 container, allineati sotto un tendone che li ripara dalla pioggia d’inverno e dal sole d’estate. Così si arroventano un po’ meno. Sotto il tendone dormono, si lavano e trascinano la giornata dalla colazione fino al pranzo e poi alla cena. Che consumano in un’altra struttura provvisoria a turni: tutti non ci stanno. La loro giornata è una attesa di nulla, perfettamente calata nel nulla che sono i Lavini di Marco. Non è bosco, non è montagna, non è campagna. Non è preistoria, né storia, né contemporaneità. Basta fare i due tornanti dalla statale per arrivare al campo, per ritrovarsi in una pietraia aliena. Niente da vedere, niente da fare. Mattina, pomeriggio e sera. In attesa che “la commissione” decreti se sono profughi o meno. Una specie di detenuti in attesa di giudizio. Ma in quello che nessuno stato civile accetterebbe come carcere. Ora è necessario ridare dignità alle persone.















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