«Ancora qualche mese e la Dea chiude» 

Lavis, avevano 40 dipendenti, ora la ditta delle sigarette elettroniche sta fallendo: «Tutta colpa delle imposte assurde»


di Daniele Erler


LAVIS. «Possiamo sopravvivere ancora qualche mese e poi basta. Se la politica non interverrà, la Dea Flavor è destinata a fallire. E ci sono riusciti in pochissimi anni. Hanno portato sull’orlo della liquidazione una società che aveva 38 dipendenti, con interventi normativi smodati e insulsi. Passiamo più tempo dagli avvocati che in azienda: questo non è lavorare».

Daniele Campestrini e Andrea Giovannini sono i titolari dell’azienda che produce liquidi per le sigarette elettroniche: la loro sede principale è a Lavis, in zona industriale. Come riportato dal Trentino mercoledì, nei giorni scorsi hanno avviato la procedura di mobilità per nove dipendenti. Altri cinque operai sono stati licenziati a inizio anno, ad altri non è stato rinnovato il contratto. Ma, dicono, sono solo dei piccoli passi rispetto a quello che saranno costretti ad affrontare al massimo entro un paio di mesi, se le cose non cambieranno. Campestrini fa un sorriso amaro mentre lo dice: «Uno o due mesi al massimo – conferma –. E poi dovremo mettere a bilancio un debito di circa 33 milioni di euro. È la nostra fine: la Dea dovrà andare in liquidazione, poi ci sarà il fallimento, con una ventina di dipendenti, quelli che ci sono rimasti, che andranno a casa».

Questa cifra – i 33 milioni di euro – corrispondono all’imposta di consumo che l’azienda dovrà versare all’Agenzia dei monopoli per gli ultimi tre anni. Da quando ovvero è entrato in vigore un nuovo ordinamento fiscale che prevede il pagamento di una tassa di 39 centesimi al millilitro, applicata su tutto il liquido utilizzato per ricaricare le sigarette elettroniche, con o senza nicotina. «In un primo momento – spiega Campestrini – la Corte costituzionale aveva detto che la tassa doveva essere applicata solo sulla nicotina. Poi alla fine del 2017, con una nuova sentenza, ha cambiato orientamento: ha sancito che è legittimo tassare l’intero liquido, non solo la nicotina che è presente al suo interno in scarsissime percentuali».

Per farci capire il senso, Giovannini fa un esempio paradossale: «Se noi diluissimo una quantità minuscola di nicotina in una piscina, con le leggi attualmente in vigore in Italia saremmo costretti a pagare l’imposta di consumo sull’intera piscina e non solo sulla nicotina: è una normativa folle, che non ha eguali in tutto il mondo». A pagarne le conseguenze sono innanzitutto i lavoratori.

E i consumatori. Perché l’effetto è semplice: da gennaio 2018, i prodotti che prima erano venduti a cinque euro, ora costano dieci euro. Il doppio. Mentre i prodotti stranieri o quelli del mercato occulto – per la mancanza di controlli efficaci – sono rimasti allo stesso prezzo, anche quando non offrono le stesse garanzie qualitative. In tutta Italia le aziende hanno iniziato a chiudere, la Dea ha subito un crollo del fatturato e della produzione del 60%, con la domanda che in Italia è scesa dell’80%. E poi ci sono quei 33 milioni di debito con lo Stato: i soldi dell’imposta per il periodo che va dal 2015 al 2017 e che in azienda non hanno mai incamerato. Perché fino a gennaio 2018, quando vendevano i loro prodotti, applicavano l’imposta solo sulla nicotina, non sull’intero liquido.

«Il nuovo governo ci ha promesso d’intervenire – spiega Campestrini – siamo fiduciosi, ma anche preoccupati. C’è poco tempo. Un paio di mesi al massimo».

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