Il lager di Bolzano e la necessità di dare maggior respiro alla memoria


Alberto Faustini


Bolzano e questo territorio fanno sempre fatica a confrontarsi con il passato. Perché il passato, qui, è quasi sempre uno specchio deforme: le immagini che restituisce, come ben dimostra più d’un libro di ieri e di oggi, si prestano sempre a più di un’interpretazione. Di qui la riluttanza, il rifiuto, la fatica che s’incontra quando si volge indietro lo sguardo. Il capoluogo ha finito da pochissimo di fare i conti con il Monumento alla vittoria. Finito per modo di dire, perché non è detto che la geniale convivenza fra il museo (di sotto) e il monumento (di sopra) non venga rimessa in discussione da qualche funambolo della politica. Lo stesso parcheggio che sorgerà sotto la piazza riaprirà il dibattito su un tema che solo qui è così delicato. Fino a dove conservare? Fino a che punto modificare? Cos’è la memoria senza l’architettura? E davvero va tutto conservato?

Altri due esempi. La storia del bassorilievo del Duce s’è appena chiusa o forse s’è appena riaperta. E il “depotenziamento” di quel manufatto - parola che da sola racconta i travagli di Bolzano - è in fondo ancora in corso. Perché le frasi della Arendt hanno bisogno dei nostri occhi per abitare in un presente meno superficiale e smemorato. 

E non si può certo considerare finito il cammino che riavvicina Bolzano al ricordo del lager di via Resia. Ci sono voluti anni, per rendere riconoscibile almeno un pezzo di quel campo che per troppo tempo è rimasto, insieme, una ferita aperta e una voragine da nascondere. Entriamo in un’epoca delicatissima: la memoria vivente, che ha gli occhi e i ricordi di chi ha visto e vissuto, di chi ha sofferto o girato il volto, ha il fiato cortissimo. I testimoni oculari sono ormai pochissimi. Noi cronisti, eterni storici di un continuo presente, cerchiamo di incontrarli, di fermare sulla carta i loro racconti. Ma altri, a cominciare da chi ci amministra, hanno il compito di cristallizzare per sempre ogni storia. Spero dunque che il sindaco di Bolzano Caramaschi faccia in fretta: è il momento giusto per ricordare i nomi, i luoghi, ciò che abbiamo fatto o subìto. Quando la realtà non si nasconde ma anzi si ostenta e si spiega, anche se è così dolorosa, smette di fare paura. E aiuta ad alzare lo sguardo.













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