Ciao Goran Kuzminac, poeta con la chitarra di un'altra Italia



Stasera l’aria è triste. E Goran mi concederà di modificare il titolo di quello che è stato, insieme, il suo primo e il suo più grande successo: Stasera l’aria è fresca. Una consacrazione. Era il 1978. Aldo Moro veniva rapito e assassinato dalla BR. L’Italia era al buio degli anni di piombo. De Gregori - che fu forse il primo vero scopritore di Goran, che aveva ascoltato a Madonna di Campiglio  - cantava «Generale». Battisti «Una donna per amico». Venditti «Sotto il segno dei pesci». L’Italia del vinile. Delle canzoni spesso solo all’apparenza spensierate. Due anni dopo, Goran è già una star. E sfonda: secondo al Festivalbar. Con «Ehi ci stai».

L’Italia faceva la doccia con lui. Il ritornello era sulla bocca di tutti: «Ehi ci stai, a far la doccia insieme...» Un inno alla libertà, all’amore, al desiderio di ricominciare e di mettersi alle spalle gli anni Settanta. Parole e musica di un cantautore dal cognome impronunciabile che aveva di nuovo fatto centro. Kuzminac, che era nato il 16 giugno del 1953 a Zemun, vicino a Belgrado, in quella che era ancora la federazione jugoslava, e che era arrivato in Trentino piccolissimo, a sei anni, quel giorno sceglieva di non fare il medico, ma l’artista a tempo pieno. Sceglieva la chitarra (che in una sua canzone faceva suonare a Dio, ovviamente... da Dio). E sceglieva le parole che si facevano canzoni. Maestro del finger-picking, tecnica appresa da un militare americano, Goran Kuzminac in realtà non ha mai smesso nemmeno di fare il medico, di occuparsi di musicoterapia, di aiutare, anche con la musica, i bambini in difficoltà. Ma l’artista che è esploso dentro di lui s’è preso tutta la scena.

Di questo e di molto altro gli ho chiesto di parlare anche negli ultimi mesi. Ma non se la sentiva. Schiacciato dal male di non essere davvero capito fino in fondo come artista, anche da quella che considerava la sua terra, ancor prima che dal brutto male che se l’è portato via l’altra notte. Mi aveva chiesto di vedere un servizio che Mollica gli avrebbe dedicato alla fine del Tg1. Pensava che ci sarebbe stato spazio anche per fare qualcosa insieme: il cantante e il giornalista. La vita ha però spesso disegni che non prevedono la realizzazione di disegni diversi. 

Chi l’ha conosciuto bene e chi l’ha abbracciato anche in questi giorni - sentendo che non ci sarebbe stato il tempo per un altro incontro - ricorda il suo coraggio, il suo genio, il suo sguardo, la sua voce calda, profonda, disincantata. Il cuore e l’entusiasmo a tratti ostinato che metteva in ogni cosa. C’è un tempo fatto di successi e di riflettori accessi con i quali spesso è difficile fare i conti: perché allontanano dalla realtà, dalla straordinaria normalità della vita. E c’è un tempo carico di silenzio e di rimpianti. Lui aveva indossato con spavalderia la stagione della gloria e aveva faticato a vestire gli abiti della normalità. Perché la normalità non faceva per lui. Ma alla fine era riuscito a farlo, ritrovando l’entusiasmo che solo un pessimo compagno di viaggio - il male col quale ha lottato a modo suo fino a poche ore fa - può cercare di toglierti. Molti lo ricorderanno con De Gregori, con Ron (ai tempi di Canzone senza inganni) e con Ivan Graziani, altra voce che s’è spenta troppo presto. Altri riscopriranno oggi le canzoni di Goran che avevano relegato in un angolo della memoria.

«Per la strada - come ha scritto ieri Alberto, il figlio di Pierangelo Bertoli - ci si perde, ma in fondo la musica resta qui per salutarci ogni volta che l’ascoltiamo». Perché la musica - soprattutto dopo 15 album e oltre tremila concerti - resta. Certe parole restano. Certi sguardi restano. Certi cuori grandi restano. E anche certi grandi dolori. Spero che Trento sappia ricordarlo in modo speciale. Per Goran. Per sua moglie. Per le sue figlie.  «Per quelli che restano», come cantano Elisa e De Gregori.

 













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